IN QUESTO NUMERO
Santo
Padre
L'ultima
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4°
Campo Nazionale "Vangelo e Nonviolenza"
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APRILE 2002
LA PACE E LA GIUSTIZIA
Il testo qui riportato, è
frutto della trascrizione di una conversazione, svoltasi a Monte Sole, il
1 giugno del 1995, tra don Dossetti e un gruppo di giovani, guidato
da don Giandomenico Cova, che lavoravano a progetto di una scuola di pace.
Il testo della registrazione, dattiloscritto ha avuto allora una qualche
diffusione.
Quella che qui riportato (e seguirà
il rimanente nelle prossime lettere ) è la prima, provvisoria edizione,
compare sull'Annuario della Pace edito da Asterios. Il suo contenuto,
serba intatta attualità, nella meditazione paziente tesa a definire il
senso di una intelligenza e testimonianza evangelica della pace nel
secolo, nelle difficoltà che evidenzia, entro le stesse chiese; nelle
indicazioni che fornisce circa il presente. Ciò che in esso soprattutto
è necessario - nell'ordine del pensiero non meno che in quello
dell'azione.
Conversazione a Monte Sole
con Giuseppe Dossetti
In
questi ultimi tempi, vedendo ciò che maturava nel campo della pace, della
non-pace, dell'educazione alla non-pace e della, direi quasi,
diseducazione alla pace, in tanti ambienti , mi sono riproposto un
problema, che non so quanto possa interessare a una parte di voi, ma che
per me, a questo punto, è fondamentale. Cioè, se la fondazione della
necessità della pace sia, come certo è, una fondazione solo razionale,
nel senso che più la ragione umana evolve e si sviluppa nei suoi
postulati fondamentali, più raggiunge o dovrebbe raggiungere - mi pare -
la certezza che la pace e necessaria e deve essere perseguita; oppure, se
sia anche un'esigenza fondata evangelicamente
Perché questo dubbio?
A parte la dottrina dei secoli passati, in cui i cristiani non hanno
sentito il bisogno di affermare con tutta coerenza, stabilità,
universalità, l'esigenza della pace, mi pare che anche ora perseverano
certe esitazioni, alcune quasi irriflesse e altre in qualche modo
motivabili, almeno sulla base del Nuovo Testamento.
Certo, è un'esigenza di tutta ragione: la ragione, messa di fronte alla
guerra, oggi non può non averne un orrore di principio e, messa di fronte
alle esigenze dell'umana convivenza, non può non cercare di pervenire a
fondare razionalmente, in modo sempre più. completo e persuasivo, in modo
stabile e universale, la pace. Direi che difficilmente può discutere,
almeno teoreticamente parlando, su una razionalità evolutiva, sempre più
impellente in questo senso.
Ma ci possiamo rassegnare a pensare soltanto così? Oppure, per cristiani
o comunque per gente che si appella al Nuovo Testamento, non vi si deve
pervenire anche da punto di vista evangelico? E non si debbono trovare
motivazioni indipendenti ragione naturale? E non si deve caratterizzare in
una maniera diversa la pace che si. pi pone - i caratteri, la sostanza, la
natura di questa pace, di cui, a prima vista, tanto l'Evangelo e il Nuovo
Testamento? A prima vista, almeno, perché vi sono anche delle frasi che
possono far pensare il contrario. Ecco, su questo ho cercato di pensare.
Vi sono pensatori cristiani - autentici - che hanno dubitato e continuano
a dubitare della fondazione neotestamentaria della pace. Perché?
Anzitutto per un'eredità dell'Antico Testamento, dalla quale qui oggi
prescindiamo, ... anche se l'Antico Testamento parla molto di pace, pur
parlando molto anche di guerra. Ma, prescindendo da esso, una certa
eredità si è trasmessa anche al cristianesimo, almeno a partire da in
certo momento, che possiamo individuare pressappoco nell'età di Agostino
... E vi sono alcune frasi di Cristo - per esempio che cosa vuol dire
quella ben nota a tutti:
'Non sono venuto a portare la pace, ma la guerra... e saranno quelli della
sua stessa casa che si rivolteranno gli uni contro gli altri: il padre
contro la madre, la suocera contro la nuora"?
E, se ci pensiamo, v'è un certo orizzonte, soprattutto in vista dei segni
precorritori della fine dei tempi, che potrebbe far pensate, a prima
vista, che la guerra sia destinata i non finire mai, che una fine della
guerra sia esclusa.
E poi v'è l'orizzonte escatologico, proprio del discorso escatologico dei
Vangeli, ma anche dell'Apocalisse, così pieno di guerra, di guerra,
terminale, della guerra del giorno di Dio. E che cos'ha voluto dire Gesù,
quando, nel discorso di congedo, al capitolo quattordici di Giovanni, dice
"Vi do la mia pace, vi lascio la mia pace. Non come il mondo la
dà"?
Quindi, la pace che viene perseguita in un certo senso
"naturalmente", secondo ragione, è la pace evangelica?
Adesso calco un pochino la mano sui dubbi, evidentemente, ma è per
suscitare una nuova riflessione al riguardo, che confuti, dentro di noi e
fuori di noi e intorno a noi, una volta per tutte, argomenti che certo
sono da considerare, ma che noi non riteniamo assolutamente validi e che
forse non ci fanno intravedere tutta la logica consequenziale del Nuovo
Testamento e tutta la vera natura della pace neotestamentaria.
Qui è il passaggio. Certo, il Cristo è venuto per una grande opera di
riconciliazione. questo l'ha detto più volte, e gli scritti apostolici si
esprimono nettamente in questo senso: Gesù è il grande riconciliatore.
Ha riconciliato gli uomini con Dio, i figli con il Padre, tutto il cosmo
con la suprema entità. Ma che cosa significa questa riconciliazione?
Collegandola col capitolo quattordici di Giovanni, che prima citavo, non
ci viene da pensare ad una pace di natura diversa, che poi si può a
volontà spiritualizzare, sempre di più, e rendere quindi sempre più
profonda, forse, ma anche sempre più evanescente?
La riconciliazione col Padre, certo, è il prius,
quel
che deve determinare tutto. Ma significa pure una concordia pacifica tra
gli uomini, tra loro, nel seno di questa umanità concreta, peccatrice, o
non vuole piuttosto assente una realtà fondamentale, globale, ontologica,
per così dire, ma che resta come una meta da perseguire sempre, senza che
sia mai raggiunta nel modo concreto dell'esistenza? Non può indicare una
strada che è da intendersi prevalentemente come strada interiore,
spirituale, o al massimo con conseguenze concrete - interiori ed
esteriori - per l'uomo singolo, senza indicare ancora una meta per tutta
l'umanità? E se la indica, in che senso questa meta può essere
differenziata, in qualche modo, dalla meta che presupponiamo di dover
perseguire razionalmente?
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