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I sacerdoti |
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don Ferdinando Casagrande |
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don Giovanni Fornasini |
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don Ubaldo Marchioni |
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padre Elia Comini |
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padre Martino Capelli |
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processo di Beatificazione
dei tre sacerdoti diocesani |
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suor Maria Nerina Fiori |
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I sacerdoti
In aiuto ai vecchi parroci pieni di anni e di malanni
l'arcivescovo Nasalli Rocca, che più volte aveva visitato Monte Sole,
mandò due giovanissimi collaboratori: don Ferdinando Casagrande
e don Giovanni Fornasini.
[…] Il primo a mettere piede quassù fu don
Casagrande, il 5 agosto 1938. Con lui si apre il capitolo dei pastori
martiri di Monte Sole. Meteore della carità. Il loro sangue era nel conto
della prima Messa.
[…] Sono sacerdoti secolari ordinati, come si dice, titulo
paupertatis seu servitío dioecesis: volgarmente il «diritto della
sporta». Appena freschi del crisma, e quindi senza lo spessore di
esperienza di cui potevano disporre i colleghi anziani maturati nel
periodo antecedente la dittatura fascista, si trovarono in mezzo a
tensioni oltre ogni limite di sopportabilità.
Erano andati sul campo di lavoro come bastoni della
vecchiaia; ma ben presto, ancor prima del congedo dei vecchi parroci,
diventarono loro i protagonisti.
[…] Don Ferdinando, don Giovanni e don Ubaldo, ultimo
aggregato alla giovane schiera, seppero unire lo spirito di profezia a
un'insolita concretezza. E fu il frutto della volontà e della grazia.
Fra tutte le aree di questa topografia dell'Ecclesia
patiens, Monte Sole rappresenta il punto culminante; e i nostri tre
giovani preti si comportano in modo esemplare, come teleguidati dallo
Spirito; ciascuno con un segno specifico e una sua luce. Don Giovanni fu
l'angelo nel senso biblico, pronto per ogni emergenza, sempre e dovunque;
don Ubaldo la sentinella di Dio sulla cima del monte; don Ferdinando
un amico e un fratello per tutti.
(Brano tratto da "Le querce di
Monte Sole" di mons. Luciano Gherardi)
Il Servo di Dio don Ferdinando CASAGRANDE
Nato
il 5 novembre 1914 a Castelfranco Emilia da Augusto e Ghermandi Anna,
ordinato sacerdote nella chiesa di S. Martino di città il 16 luglio 1938
da S. Em.za il Cardinale Nasalli Rocca, cappellano a S. Martino di Caprara,
poi parroco a Gugliara dal maggio 1944. Ucciso a S. Martino di Caprara il
9 ottobre 1944.
Il
buon vecchio a stento riesce a frenare il tremito che dall'ottobre 1944 ha
invaso le sue membra ed è andato aumentando con il crescere della sua
ansia dolorosa. Ci guarda coi suoi occhi un po’ appannati, ma ancor
vividi di luce intelligente. Una austerità misteriosa trapela dal suo
volto scarnito.
— Volete che vi parli del mio don Ferdinando? — incomincia incerto. —
Beh! vi dirò quel che so, e non potrà che fare un po’ di bene anche a
me parlare di lui. Pensate! Ci è stato tolto a trentanni appena, da solo
cinque mesi parroco a Gugliara. Eravamo tutti assieme lassù: mia moglie,
i miei cinque figli! e son rimasto solo! Si vede che il Signore voleva così!
— Sospira profondo, e ripiglia dopo una breve pausa in cui lo
contempliamo in silenzio.
—
Siamo al 22 settembre del '44. Di tanto in tanto si fa più aspra la lotta
fra «quelli» nascosti nella montagna e le truppe tedesche. In una
scaramuccia resta colpito mortalmente un soldato delle S.S.: ed ecco la
rappresaglia. Tutte le case della borgata «la Quercia». ove è avvenuto
lo scontro, sono interamente distrutte dal fuoco e s'inizia una caccia
spietata alla gente del paese.
Il
mio don Ferdinando, che si trovava proprio nel rifugio della galleria «La
Quercia» fugge assieme alla sorella Gabriella, e viene a nascondersi
nella casa «Calvane» ove eravamo già raccolti noi tutti. Laggiù alle
«Quercie» dove era la nostra casa, non era più possibile la vita, e
speravamo un po’ di pace lassù alle «Calvane» nella casa del nostro
contadino.
Alle
ore sei del 29 settembre siamo avvertiti da un contadino che ormai stanno
per giungere i tedeschi. Dove fuggire? Ovunque c'era in agguato la morte:
i tedeschi ci braccavano come selvaggina, gli alleati, ormai a pochi
chilometri, ci tempestavano di proiettili.
Decidiamo
di lasciare le donne, ed io, con don Ferdinando e l'altro figlio Giannino
ci andiamo a nascondere in un piccolo rifugio dietro il cimitero di S.
Martino di Caprara. Il rifugio ci parve sicuro: scavato nel tufo, su uno
strapiombo con l'ingresso nascosto dal folto degli alberi, a cui si
accedeva per un sentiero da capre, attraverso la roccia dello strapiombo.
Nemmeno i tedeschi lo avrebbero saputo individuare.
Decidemmo
di andar a prendere le nostre donne e così dal 1° ottobre ci ritrovammo
ancora uniti e qui rimanemmo rintanati fino al nove ottobre.
Furono
quelle, giornate di angoscia incredibile: sopra di noi stava in vedetta un
soldato tedesco, e solo di notte, con mille precauzioni potevamo fare
qualche sortita per cercare un po’ di alimenti. La sera dello stesso 1
ottobre, giunsero fino a noi gli spari dei tedeschi contro i disgraziati
che si erano rifugiati nella chiesa di S. Martino, e anche l'acre odore
nauseabondo dei loro cadaveri dati al fuoco.
Asseragliati
come belve sentivamo, giorno e notte la terra sobbalzare sotto
l'incessante martellamento dell'artiglieria alleata. Nessuno osava
portarsi allo scoperto! si correva il rischio di lasciarci la pelle. Per
tutti quei giorni, eterni e sfibranti, ci nutrimmo di castagne crude e di
pere acerbe (bottino di una sortita notturna), una al mattino, una a
mezzogiorno, una alla sera.
Vedevo
i miei cari consumarsi a poco a poco, i volti sbiancati farsi più
affilati, e anche il mio don Ferdinando, che era sempre stato magro, come
vedete anche da quella fotografia (e ce l'addita appesa al muro), si era
ridotto all'osso, i suoi occhi si erano affondati ancor più nell'orbita.
Pure era sempre lui che ci teneva alta la fiamma della rassegnazione e
della speranza, e fugava col suo esempio di fiducia in Dio la tristezza
cupa che ci attanagliava di ora in ora sempre più.
Al
nono giorno di tomba però don Ferdinando ha voluto salire al Comando
tedesco, che aveva sede a S. Martino onde ottenere il permesso di uscire e
di attraversare quelle zone proibite, perchè capiva che ormai non
potevamo più resistere agli stimoli della fame. Sua sorella, la Giulia,
che era maestra all'asilo della «Gardelletta», ha voluto accompagnarlo
in quella missione e dividerne i pericoli. Li accompagnammo fino
all'ingresso del rifugio, li abbracciammo, invocando l'aiuto di Dio per
loro, li osservammo buttarsi fuori veloci e scomparire. Un cupo presagio
ci rimase nel cuore, mentre, seduti in silenzio, ascoltavamo il fischio
dei proiettili. Non li abbiamo più visti!... —
Il
vecchio china il capo e tace a lungo per ricomporre la sua voce rotta da
un singhiozzo. Attendiamo in religioso silenzio.
—
Solo passati parecchi giorni ho potuto sapere la loro triste fine; e i
particolari ci saranno forse per sempre sconosciuti.
Pare
che don Ferdinando riuscisse a raggiungere il Comando tedesco e farsi
rilasciale il permesso di transito. Ma lui e la Giulia avevano appena
voltato le spalle per ritornare che quelle belve li colpirono a tradimento
con scariche di mitraglia. Il mio don Fernando cadde sul sentiero con un
proiettile nella nuca; la buona Giulia con cinque pallottole di mitraglia
al petto. Sono morti abbracciati stretti, e dai tedeschi buttati così nel
precipizio che fiancheggia il sentiero.
Col
lento passare dei giorni compresi che ormai era vana la tormentosa attesa
dei miei cari.
Ma
non era finita l'ascesa al mio doloroso calvario!
L'11
ottobre, giornata piovosa, alle 11,30 precise, un proiettile che scoppia
nei pressi del rifugio colpisce con una scheggia l'altra mia figlia, la
Gabriella, uscita per un istante, e la butta a terra immersa nel suo
sangue. Ne copriamo il cadavere con un panno e ci buttiamo giù verso il
Setta in cerca di un luogo più sicuro.
Giunti
al fondo de «La Conca» ci fermiamo nascosti nel folto del bosco, in
attesa dell'ombra della notte per passare il fronte di guerra; ma appena
calate le tenebre, poco dopo le 18, mentre stiamo rannicchiati sotto i
bagliori degli scoppi che illuminano i tronchi degli alberi, una cannonata
ci colpisce in pieno: mia moglie e gli altri due figli, Lina e Giannino,
sono colpiti in pieno. Io ho il piede destro ferito e rimango solo vivo,
tra il tormento della mia carne offesa, tra il sangue della moglie e di
Giannino che più non possono rispondere alle mie invocazioni, tra gli
urli strazianti della Lina che ha le gambe stroncate e chiede
disperatamente aiuto... e davvero non so come il cuore non mi sia
scoppiato in tanto strazio! —
Due
lacrime rigano il suo volto patito e si perdono fra le rughe. Un singulto
gli stronca ancora la parola. Pure si fa coraggio e prosegue la sua
incredibile avventura.
—
Ormai mi sentivo solo al mondo. Eppure quanto è grande nell'uomo
l'attaccamento alla vita! Non volevo morire e speravo pazzamente che
qualcuno dei miei si potesse ancora salvare: almeno la mia Lina!
Mi
alzo per andare in cerca di soccorso. Barcollo, ogni passo è uno strazio:
pure resisto, stringendo i denti e appoggiandomi al bastone, e vado solo
solo!... vado cercando, invocando ad ogni passo i miei sei cari,
disperatamente certo ormai del loro tragico destino!... vado, arrancando,
verso posizioni ove speravo trovare aiuto!
A
Rivabella c'erano dei civili, lo sapevo, e volevo giungere fin là.
Invece, prima del «Beccadello» mi imbatto in una pattuglia di tedeschi
che mi fanno prigioniero. Perquisito, derubato di tutto, perfino di una
boccetta di aceto che mi serviva per medicare le ferite, mi trattengono
con loro. Oh, la notte passata con essi, con la gamba ferita stesa su di
una sedia, fra gli spasimi della carne e il martellamento dei ricordi che
mi torturavano il cervello!
Al
mattino del 12 ottobre, aiutato da una ragazza che era a servizio dai
tedeschi, riesco a portarmi fino ad una stalla abbandonata ove buoni
amici, che a stento mi riconoscono (ero calato venti chili!) mi hanno
assistito e curato; ma non ci fu possibile portare aiuto alla mia cara
Lina, e sempre io avevo davanti agli occhi la mia piccola, che
illanguidiva a poco a poco, nella perdita del sangue.
Finalmente
il 25 ottobre i tedeschi se ne andarono sconfitti e il 27 arrivarono gli
alleati.
Io
già mi sentivo in forze, la ferita era rimarginata bene ed avevo in cuore
una smania che non mi dava riposo: «Bisogna che io vada, mi dicevo, che
corra a seppellire la mia famiglia!».
Da
Rivabella guardavo giù nella vallata, ma non riuscivo più a vedere nulla
che mi orizzontasse: tutte le cose erano ridotte un cumulo di macerie;
anche la Chiesa e il campanile di S. Martino di Caprara non apparivano più
nel fondo della vallata: tutto il paese era raso al suolo.
Tuttavia
sempre lo stesso pungolo mi tormentava il cuore e non mi dava pace: «Voglio
vedere i miei cari. Bisogna che vada!».
E
un giorno sono andato, appoggiato al mio bastone, con passo sempre più
affrettato.
Chiedo,
supplico informazioni agli abitanti del luogo. Tre miei amici mi aiutano e
riusciamo a rintracciare le salme benedette. Le componiamo sotto la terra
ancora sconvolta, con mani tremanti, bagnate di lacrime e di sangue.
Gli
Americani poi ci hanno mandato tutti noi che eravamo a Rivabella senza
casa, prima a Firenze, poi, in diverse tappe, fino a Roma, a «Cinecittà»,
ove anch'io sono stato alloggiato per sei mesi. —
Il
buon vecchio tace ancora. Nel suo volto non c'è più l'abbattimento che
vi aveva prodotto l'emozione del racconto: ora è sereno della serenità
che bacia la fronte dei giusti, anche di quelli che sono stati sottoposti
alle prove più dure. Con commozione gli stringiamo la mano.
(brano tratto dal sito
"http://www.mascellaro.info/abes/_i/space.gif")
Padre misericordioso,
consolazione e ricompensa di chi confida in te,
tu ami rivelare
la tua grandezza negli umili,
la tua potenza nei deboli,
e nel mistero adorabile della tua provvidenza
hai sostenuto don Ferdinando Casagrande
nei giorni più oscuri
del suo mistero sacerdotale
fino all'olocausto della sua vita.
Donaci di essere
sempre operatori di pace e di giustizia,
animati dalla fede viva
che affronta e supera il dolore e le difficoltà
nell'unione feconda
con la passione gloriosa del Cristo Signore.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli. |
Beato don Giovanni FORNASINI
Nacque
a Pianaccio di Lizzano in Belvedere (Bologna) il 23 febbraio 1915, da
Angelo e Maria Guccini. Trasferitosi con la famiglia nel 1925 a Porretta
Terme (Bologna), frequentò al collegio Albergati le tre classi del corso
di avviamento commerciale; era ritenuto «un somarino che tirava,
generosissimo ed entusiasta in ogni cosa. Non era un'aquila nello studio,
ma nell'azione e nel sacrificio pochi riuscivano a tenere il suo passo»
(don Enrico Marini).
Dopo
essere stato di aiuto al parroco don Goffredo Minelli, decise di farsi
prete. Entrò nel seminario di Borgo Capanne nell'ottobre 1931. Seguì poi
il corso degli studi a Bologna nel seminario arcivescovile di Villa
Revedin e nel seminario regionale, partecipando con intensità
all'esperienza formativa offertagli. Subito dopo l'ordinazione a
diacono, nel 1941, venne inviato a Sperticano di Marzabotto in aiuto
dell'anziano parroco don Giovanni Roda. Per un anno, sino
all'ordinazione sacerdotale, fece la spola, in quegli anni inconsueta,
tra il seminario e la parrocchia. Ordinato sacerdote il 28 giugno 1942,
venne immediatamente nominato vicario coaudiatore a Sperticano.
Morto
don Roda, il 20 luglio 1942 venne nominato economo spirituale, e il 21
agosto parroco di Sperticano. Numerose testimonianze concordano nel
sottolineare che il giovane parroco trasformò la canonica in un «cantiere
della carità», caratterizzato dalle più diverse iniziative pastorali e
sociali, ma soprattutto dalla costante attenzione del sacerdote per i
suoi parrocchiani, tutti.
Affrontò
il periodo dell'occupazione tedesca e del trasferimento del conflitto
sul suolo italiano, cogliendo con immediata consapevolezza la funzione
che avrebbe dovuto svolgere come sacerdote cattolico.
Grazie
ad una «resistenza incredibile», «correva dappertutto», «per cercare
di liberare la gente dalle difficoltà, di risolvere i loro problemi.
Non aveva paura. Era un uomo di gran fede e sempre coerente». Nei giorni
dell'eccidio di Monte Sole, nei quali si perse il significato della
vita e della morte, la testimonianza di amore di don Fornasini non ebbe
sosta.
La
sua morte è «ancora immersa nel mistero»: non se ne conosce la
ragione specifica, l'autore, la modalità. In quei giorni, subito dopo,
poi sempre, sino ad oggi, don Fornasini è considerato l'angelo
di Marzabotto. «Prima della sua eroica morte avvenuta per un motivo
direi soprannaturale, aveva già un corredo di virtù, di opere sante, di
azioni generose che possono testimoniare della sua santità. Altri sono
stati in qualche modo coinvolti dalle circostanze. Lui, no... Io sapevo
quello che la gente diceva di lui; e posso dire che è la figura più
bella, più caratteristica: quell'uomo merita la canonizzazione» (padre
Lino Cattoi). Ritenuto «commovente esempio di carità e di fortezza
eroiche» (mons. Danio Bolognini, 1946), alla sua memoria venne decretata
nel 1950 la
Medaglia d'oro al Valor Militare alla memoria, decreto Presidente
della Repubblica del 19.05.1950, consegnata alla madre in data 2.06.1951
a Bologna, con la seguente motivazione:
"Nella sua parrocchia di Sperticano, dove gli uomini validi tutti
combattevano sui monti per la libertà della Patria, fu luminoso esempio
di cristiana carità. Pastore di vecchi, di madri, di spose, di bambini
innocenti, più volte fece loro scudo della propria persona contro
efferati massacri condotti dalle S.S. Germaniche, molte vite sottraendo
all'eccidio e tutti incoraggiando, combattenti e famiglie, ad eroica
resistenza. Arrestato e miracolosamente sfuggito a morte, subito riprese
arditamente il suo posto di pastore e di soldato, prima tra le rovine e
le stragi della sua Sperticano distrutta, poi a S. Martino di Caprara
dove, pure, si era abbattuta la furia del nemico. Voce della Fede e
della Patria, osava rinfacciare fieramente al tedesco l'inumana strage
di tanti deboli ed innocenti richiamando anche su di se la barbarie
dell'invasore e venendo a sua volta abbattuto, lui Pastore, sopra il
gregge che, con estremo coraggio, sempre aveva protetto e guidato con la
pietà e con l' esempio".
S. Martino di Caprara, 13 ottobre 1944)
La parrocchia di Sperticano venne elevata ad arcipretale in seguito
all'olocausto di don Fornasini, come testimonia una lapide all'interno
della chiesa.
Il
19 agosto 1998 la Congregazione delle Cause dei Santi ha dato il nulla
osta per l'inchiesta diocesana sulla vita e le virtù del servo di Dio,
iniziata poi il 18 ottobre dello stesso anno.
(Alessandro Albertazzi) Il 26
ottobre 2021 il Servo di Dio don Giovanni Fornasini è stato proclamato
Beato nella Basilica di San Petrinio a Bologna da mons. Marcello
Semeraro responsabile della
Congregazione delle Cause dei Santi
PREGHIERA O Dio
che nella vita immolata
del tuo servo Giovanni Fornasini
manifesti l'infinita trascendenza
del tuo amore di Padre fa che
per l'esempio della sua dedizione
al gregge a lui affidato, vissuta
senza riserve e senza titubanze
anche noi possiamo camminare
nell'offerta giorno per giorno
della nostra vita.
Per Cristo nostro Signore
Amen |
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Il Servo di Dio don Ubaldo MARCHIONI
Nato
il 19 maggio 1918 a Vimignano di Grizzana da Augusto e Smerigli
Antonietta; ordinato sacerdote il 28 giugno 1942 da S. Em.za il Card.
Nasalli Rocca, cappellano a Monzuno fino al 17 maggio 1944, quando fu
nominato parroco a Gugliara e subito trasferito a San Martino di Caprara
di cui prese possesso 1’8 settembre 1944. Trovò la morte nella chiesa
di Casaglia di Caprara il 29 settembre 1944.
29 settembre 1944: nella montana chiesetta di
Casaglia di Caprara, attorno al sacerdote che sta devotamente celebrando,
un centinaio di fedeli, in prevalenza donne e bambini, prostrati nella
trepidazione di un pericolo imminente, affisano gli occhi a quell'altare
su cui si rende presente la Vittima Divina.
— Pietà, Signore — è
il grido che erompe più angosciato da ogni petto quando più violente e
più vicine si fanno le raffiche delle mitragliatrici, più sinistri i
bagliori degli incendi, più basse e dense le cupe ondate di fumo che si
alzano nel cielo sereno dalle case in fiamme.
Sono stati svegliati
all'alba dai ripetuti spari nelle boscaglie attorno e specie sulle cime
del Monte di Caprara, su cui ha sede un Comando di Partigiani, e presto si
è sparsa fra loro l'agghiacciante notizia portata da qualche montanaro in
fuga:
— I tedeschi danno la
caccia ai Partigiani, e bruciano tutto! Scappate! — Da Sperticano, da
Pioppe, da Gardelletta, da «La Quercia» infatti l'irruenza nemica si
stringe e incalza.
Gli uomini in parte hanno
raggiunto i boschi più scoscesi verso il Setta, le donne e i bambini
hanno sperato una salvezza nella sacra inviolabilità del tempio, e a
gruppi o isolati, col cuore in gola, si sono raccolti nel piazzale e
nell'interno della chiesa.
Non c'è l'Economo che è
il Parroco di S. Martino di Caprara, don Ubaldo Marchioni, il giovane
zelante sacerdote che ha incarico di provvedere anche a questa parrocchia
che sovrasta la sua Caprara. Egli, oltre a celebrare la Messa nei giorni
festivi a Casaglia, si inerpica, appena può, anche alla chiesina di
Cerpiano, anch'essa affidata alle sue cure.
Ma quei buoni montanari
sanno per esperienza lo zelo di d. Ubaldo ed hanno aspettato fiduciosi,
come le pecorelle cadute in una sterpaia inestricabile chiamano e
aspettano il pastore che le liberi.
E d. Ubaldo è venuto.
È venuto nonostante le
pressioni dei suoi congiunti che lo scongiuravano di restare in casa in
quella mattina che già si presentava con sì tristi presagi, mentre
attorno cominciavano a levarsi al cielo le prime colonne di fumo dai
cascinali in fiamme. Don Ubaldo ha sentito più forte l'appello di una
voce superiore. Ha ricordato che quando prese possesso della sua
parrocchia di S.Martino, parlando ai suoi fedeli, aveva loro detto: —
Ben volentieri e di gran cuore io mi sacrificherò per le anime vostre!
— Ed ora è giunto il momento di mantenere quella promessa. Anche lassù
vi è una parte del suo gregge esposto al pericolo, anche lassù vi è il
Ss.mo Sacramento che può essere profanato, e bisogna provvedere:
consumare le Sacre Specie, fare Comunioni anche lassù e a Cerpiano, se è
possibile!, come poco prima ha fatto nella sua chiesa di Caprara con i
molti popolani che si sono riversati nel tempio, in canonica e nei locali
adiacenti.
— Bisogna che vada! —
ha deciso don
Ubaldo. — Pregate. Sarà
quel che Dio vuole!
— E anche il padre non ha
saputo più trattenerlo.
Sua intenzione era di
giungere prima fino a Cerpiano, la località più isolata e più scomoda,
provvedere alla sicurezza di quella chiesina e degli abitanti, poi
ritornare a Casaglia e infine ritirarsi ancora presso i suoi a S. Martino.
Ma passando da Casaglia si
è visto circondale da quel numeroso gruppo già da tempo in attesa
fiduciosa. Gli si sono stretti attorno:
— D. Ubaldo, resti con
noi! Non ci abbandoni, d. Ubaldo! —
Si sono levate mani
tremanti a supplicarlo; tanti occhi, nuotanti nelle lacrime e dilatati dal
terrore, lo hanno fissato con ostinata fiducia; le mamme gli hanno
presentato i loro piccoli stretti alle loro sottane:
— Pei nostri bambini, d.
Ubaldo —
E d. Ubaldo è restato
rinunciando a recarsi a Cerpiano ove forse l'avrebbe atteso in agguato un
diverso martirio.
È entrato in chiesa e si
è preparato per la Messa: tutti si sono riversati attorno all'altare e si
sono prostrati a terra.
È il giorno di San Michele
Arcangelo. — Fortis in bello! — pensa d. Ubaldo e invoca fortezza per
i suoi che si dibattono inermi in una delle aberrazioni più mostruose
della guerra.
Al momento della Comunione
molti si appressano al Banchetto degli Angeli battendosi il petto. Le
Sacre Specie sono consumate.
La Messa è celebrata; d.
Ubaldo depone i paramenti, passa tra la folla che non lascia la chiesa e
dice ancora una parola di conforto mostrando l'intenzione di dare una
scappata a Cerpiano.
Ma la popolazione è troppo
agitata: sente, ed è ben triste presentimento!, che il pericolo si fa più
vicino. Già giungono dalle alture i comandi gutturali dei rastrellatori a
caccia dei partigiani e dei civili; e tutti si stringono intorno a lui. È
una barriera di corpi e di anime che non si può superare e d. Ubaldo
ancora si commuove:
— Recitiamo il Rosario,
allora. —
Tutti hanno un sospiro di
sollievo e, mentre ancora si inginocchiano, sentono alleviarsi il panico
che li opprimeva. D. Ubaldo estrae la corona, si inginocchia sui gradini
dell'altare e intona il rosario. I fedeli fanno coro.
L'irruzione in chiesa di un
gruppetto di tedeschi col mitra puntato interrompe la preghiera.
D. Ubaldo si alza in piedi,
le donne e i bambini ammutoliscono. I tedeschi avanzano verso il prete: lo
riconoscono:
— Il grande partigiano!
—
Così l'avevano chiamato da
tempo, sapendo del suo aiuto disinteressato a tutti coloro che bussavano
alla sua porta; anche e specialmente ai partigiani, poichè i partigiani
erano i più bisognosi.
Quando fin dal gennaio 1944
le montagne che sovrastano la sua chiesa si popolarono di partigiani, di
renitenti alla leva o di ribelli alla repubblichetta di Salò egli fu in
mezzo a loro come un missionario di Cristo, perchè, oltre al pane per
rifocillare i loro corpi, sapeva dire la parola buona che consola lo
spirito, sapeva diffondere gli elementi dottrinali della Democrazia
Cristiana per illuminare le loro menti e confortarli ad ideali più puri.
È per questo che «La Punta», il periodico clandestino della Democrazia
Cristiana, riporterà poi nel numero di febbraio 1945, una sua breve
biografia, esaltandone l'opera a favore dei patrioti unendola all'opera
degli altri sacerdoti:
«L'olocausto di d.
Marchioni si aggiunge ai troppi ormai offerti dai sacerdoti delle nostre
terre. È il tributo meraviglioso dei sacerdoti italiani alla causa della
carità e della libertà».
Ed ora il «gran partigiano»
è in loro mano! È giunto il momento della vendetta.
D. Ubaldo si fa avanti,
sfidando il mitra spianato e, rivolto al comandante spiega, supplica:
— Non sono partigiani
questi! Lo vedete! sono donne, bambini, gente che abita sul posto da anni.
Sono tutti innocenti! —
La parola è convincente,
riboccante di sincerità e di carità: è parola di padre che trepida per
la sorte dei figli.
Un ordine suona: — Tutti
fuori! —
Escono terrorizzati e sono
incolonnati, in numero di 84, verso il cimitero di Casaglia.
C'è in chiesa una povera
donna, Nanni Vittoria, semi-paralizzata alle gambe, che non può muoversi
e che si aggrappa convulsa allo schienale della sedia nel tentativo di
ubbidire. I tedeschi le impongono di lasciare l'appoggio e, visto che non
le è possibile reggersi da sola, la fucilano sul posto fra l'orrore dei
fedeli che stanno uscendo e che hanno il triste presagio della loro fine.
Mentre d. Ubaldo è
piantonato all'altare, vengono frugati tutti i locali adiacenti. Nel
campanile sono trovati nascosti, in un ultimo tentativo di sfuggire alle
loro ricerche, una donna: Enrica Ansaloni, cognata del defunto arciprete,
e Giovanni Betti di Gardelletta. Una scarica di mitraglia li abbatte sul
posto.
Mentre la colonna penante
della porzione migliore del suo gregge ondeggia verso il luogo del suo
martirio, d. Ubaldo, rimasto solo nella chiesetta fra quelle belve,
privato anche della consolazione di assistere fino all'ultimo i suoi
fedeli in pericolo, china il capo alla volontà di Dio e si prepara
all'ultimo olocausto.
Non abbiamo particolari
sulla sua morte.
Un fucile gli è spianato
contro, e il degno sacerdote stramazza sulla predella dell'altare maggiore
sul quale, pochi istanti prima, si ergeva con la bianca Ostia fra le mani
quale intermediario fra Dio e l'umanità. Un'ora dopo la chiesa è in
preda alle fiamme.
Due giovani nel pomeriggio
dello stesso giorno entrano in chiesa, incuranti delle fiamme che ancora
si sprigionano attorno, e vedono il giovane sacerdote disteso sulla
predella dell'altare, mentre le fiamme lo circondano, quasi timorose di
lambire quel corpo che, come vittima propiziatoria, giace immolata ai
piedi dell'altare. Leggono accanto un grande cartello: «Ribelli questa è
la vostra sorte».
E forse fu sorte beata
quella di d. Ubaldo che non vide lo strazio del gregge, che non seppe le
esosità usate verso la sua famiglia.
Non videro gli occhi suoi
di buon pastore il cimitero, il luogo consacrato al riposo dei giusti,
imporporato dal sangue di tanti innocenti, ben settanta fra donne e
bambini! Non vide egli il muro di cinta e la cappella mortuaria scrostati
dalla falcidia dei colpi di mitraglia di quei forsennati! Non vide cadere
l'uno sull'altro madre e figli! Non udì l'ultimo urlo saturo di terrore;
non rabbrividì allo scoppio di pianto sconsolato del piccolo Tonelli del
«Possatore», rimasto illeso sui cadaveri della madre e di cinque
fratelli: «Io voglio morire con loro!»
Gli è risparmiato lo
strazio della mostruosa profanazione della chiesa di Cerpiano che, in
quello stesso giorno di S. Michele Arcangelo, si trasforma in un
raccapricciante carnaio dove 43 vittime innocenti sono squarciate e
dilaniate a colpi di bombe a mano! E non sente il cuore spezzarsi alle
parole della piccola Rossi Paola di sei anni che, rizzandosi
fortunosamente incolume, fra la strage dei suoi, singhiozza guardandosi
sgomenta intorno: «Tutti morti! la mia mamma! la mia zia! la mia nonna
Giovanna! il mio fratellino!... Tutti morti!»
Gli è risparmiata l'ansia
angosciosa per la famiglia.
Difatti mentre il padre, la
madre e una sorella di 14 anni stanno in penosa apprensione, verso il
mezzogiorno dello stesso 29 settembre, giungono alla canonica di S.
Martino quattro tedeschi che perquisiscono la casa. Stanno per partire.
Uno di loro tranquillizza il padre:
— Qui nulla fare... Non
avere trovato armi. — E chiedono da bere.
Mentre viene loro offerto
del vino, un soldato nota sul caminetto della cucina un po’ di polvere
nera, residuo di sassi scalfiti e di legna spaccata.
— Questo essere
esplosivo! — gridano i barbari, a caccia di un pretesto qualsiasi
per abusare del loro potere.
Il padre si affanna a
spiegare, nel miglior modo, che sono in errore, ma quelli non vogliono
sentile ragioni.
— Bruciare! bruciare!
— E partono infuriati appiccando il fuoco a due fienili adiacenti alla
chiesa.
Fu allora solo rimandata la
strage della famiglia.
Purtroppo più tardi anche
la madre e la figlia Maria troveranno la morte e il padre di d. Marchioni
resterà solo, peregrinante col cuore spaccato dal dolore.
Quando ritornerà per
rintracciare i suoi cari non potrà che dar sepoltura a resti talmente
carbonizzati e sì bestialmente sparsi, da riuscire appena a
identificarli.
Il primo ottobre infatti i
tedeschi avevano fatto uscire dalla chiesa di San Martino, ove avevano
trovato scampo, una quarantina di persone fra uomini donne e bambini, «dando
una fucilata a ciascun uscente». Di quei corpi ancora agonizzanti ne
avevano fatto un cumulo e, aspersili di benzina, avevano appiccato loro il
fuoco. Un falò tragico si era alzato nella notte in uno spettacolo
sinistro.
Chi ha seppellito, dopo
alcuni giorni, il buon d. Ubaldo nella grande fossa che accoglie le 84
vittime di Casaglia di Caprara, ha assicurato di averlo trovato in chiesa
tutto carbonizzato e senza un piede.
Particolare curioso questo
piede che non si è potuto, ritrovare! Quel piede che tante miglia ha
percorse, tanto spesso ha pigiato sul, pedale, tante volte ha arrancato
veloce sui dirupi, pei sentieri boscosi, in perpetua ricerca delle sue
pecorelle!
«O quam speciosi pedes
evangelizantium pacem. evangelizantium bona» torna spontaneo alle labbra.
Gli angeli forse l'hanno
riposto, come reliquia preziosa degna di somma venerazione, a simbolo
della gloria riservata alle fatiche e, ancor più, al sangue degli
apostoli di Cristo.
Così era immolata la prima
vittima sacerdotale nei massacri di Marzabotto.
(brano tratto dal sito
"http://www.bibliotecapersicetana.it/node/166")
Suscita ancora nella
tua Chiesa,
Padre onnipotente e santo,
sacerdoti e generosi,
ardenti dell'amore per Cristo e per i fratelli,
testimoni autentici e fedeli
dei misteri che celebrano.
Tu hai dato a don Ubaldo Marchioni
la forza e la grazia
di restare fedele al suo gregge
in mezzo al quale la cieca violenza degli uomini
lo immolò ai piedi dell'altare
del sacrificio dell'Agnello.
Dona a noi tutti sollecitudine instancabile
nel cooperare secondo la nostra vocazione
all'avvento del tuo Regno
di amore e di pace.
Per Cristo nostro Signore. |
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Il Servo di Dio padre
Elia
COMINI
Don
Elia Comini nacque il 7 maggio 1910 a Calvenzano, comune di Vergato
(Bologna), dove fu battezzato nella chiesa parrocchiale il giorno
seguente, 8 maggio. La casa natale sorge a fianco del Santuario
detto della Madonna del Bosco. Con la famiglia si trasferì (1914)
in località "Casetta", parrocchia di Salvaro, comune di
Grizzana (Bologna); sempre sulle sponde del fiume Reno, lungo la
strada Porrettana. Alla morte del padre Claudio (1926), Elia trovò
un secondo padre nell'Arciprete di Salvaro, Mons. Fidenzio Mellini,
che stimava molto il giovane per la sua bontà, religiosità e
capacità intellettuali.
Dopo il noviziato, Elia fece la prima Professione religiosa a
Castel de' Britti (Bologna) nel 1926; completò gli studi a Torino
Valsalice; si laureò presso l'Università statale di Milano e fu
consacrato sacerdote nella cattedrale di Brescia, dal Vescovo Mons.
Giacinto Tredici, il 16 marzo 1935. Don Elia Comini fu sacerdote ed
insegnante, apostolo ed educatore di giovani, nelle scuole salesiane
di Chiari (Brescia) presso il convitto "Rota" e presso l'aspirantato
"Santuario Salesiano di Treviglio (Bergamo). Il 1 ottobre 1944
muore a Pioppe di Salvaro.
|
20 luglio 1944. - Un giovane
sacerdote, che ha i fianchi recinti
da
un cordone nero, bussa alla porta
della casa parrocchiale di Salvaro.
Gli viene ad aprire un altro giovane
sacerdote, alto, di aspetto
sereno
come è serena la sua anima. Sbircia
dal la porta socchiusa e
con un «oh»
di sorpresa si slancia a stringere
ripetutamente la
mano al nuovo
venuto:
—
Oh! padre Martino! Finalmente ti
sei deciso! Entra, entra! —
E
don Elia lo accompagna fino alla
poltrona del vecchio arciprete,
Mons.
Fidenzio Mellini.
La domenica 23 luglio si ha la
prima crudele rappresaglia
tedesca.
Il cadavere di un soldato viene
trovato sulla strada
porrettana,
proprio nella zona fra Pioppe e
Salvaro. Subito i
tedeschi fermano i
primi dieci civili che incontrano e li
uccidono,
saccheggiano le case
coloniche sull'altro versante di
Malfolle, a
Salvaro e le incendiano.
29 settembre: festa di San Michele
Arcangelo, Titolare della
parrocchia
di Salvaro.
È
giorno festivo per gli abitanti della
zona.
Il
cielo si imporpora ai primi sprazzi
di luce che calano dalle alture
di
Monte Salvaro e sembra anch'esso
voler partecipare alla festa del
grande
Arcangelo, mentre le campane
chiamano festose alla prima
Messa.
Ma i parrocchiani e gli sfollati non
dormono più da tempo.
Una
sinfonia cupa di spari che si
incrociano da ogni parte li aveva
fatti
balzare presto dal letto ed, ancora fra
il primo baluginare
dell'alba, si erano
affrettati verso la chiesa. Ed ora il
piazzale e
l'atrio rigurgitano già di
persone che discutono animatamente,
sospirano sommessi, singhiozzano col
terrore della morte vicina.
Da
ogni parte del Monte Salvaro si
moltiplicano i crepitii delle
mitragliatrici e ogni tanto una
fiammata si alza al cielo col suo
pennacchio di fumo e si va ad unire
alle altre che già numerose si
levano
da ogni parte.
Mons.
Mellini dà ordine che siano aperte le porte della chiesa, e il
popolo vi si riversa impaziente, fiducioso di trovare un rifugio
sicuro nel luogo sacro.
P.
Martino celebra subito la prima Messa alla quale seguiranno
immediatamente quella dell'Arciprete e di d. Elia. Non è possibile
seguire l'orario festivo, come si era fissato per quel giorno.
Durante la Messa di P. Martino, d. Elia cerca in canonica e nelle
adiacenze della chiesa un rifugio per gli uomini, che sono i più
esposti al pericolo; e lo trova.
Finita
la Messa, P. Martino, come se tutto fosse normale, va a portare i
Sacramenti ad un'ammalata, e d. Elia, mentre celebra l'arciprete,
sgombera una piccola sagrestia, adiacente alla grande, che era
servita fin allora ad una famiglia sfollata, vi fa entrare una
settantina di uomini e poggia contro l'ingresso un armadio, dopo
aver raccomandato il silenzio. Poi va a celebrare. L'ultima sua
Messa!
Giunge intanto una grave notizia.
Alla
casa «Creda» le S.S. germaniche, assieme a repubblichini italiani,
hanno arrestato come ribelli 69 persone: un uomo è riuscito a
fuggire e chiede aiuto.
Non
c'è da esitare: il cuore dell'apostolo non trema anche davanti ai
pericoli più gravi quando si tratta del bene del prossimo.
Pochi
istanti dopo i due apostoli moderni, d. Elia e P. Martino, incuranti
del pericolo, sordi alle esortazioni dei fedeli che li scongiurano
di non andare, P. Capelli munito ancora degli Olii Santi, salgono
dalla «Serra», attraverso le mulattiere, verso casa «Caposena» e
la più lontana «Creda», sotto il fuoco nemico, fra il sibilo
delle pallottole.
Ma
alla «Creda» i tedeschi li fanno prigionieri. A nulla valgono le
proteste, la veste che indossano.
—
Siete spie! — insistono quegli energumeni.
Li
trattano brutalmente, li costringono a trasportare munizioni
caricandoli come giumenti, compiacendosi di vederli affannali sotto
il peso, su e giù per le dure rampe, sotto la loro rigorosa
sorveglianza, e facendoli assistere impotenti alle più
raccapriccianti violenze verso poveri innocenti.
La mattina del 30 settembre, i tedeschi li passano in
rivista, li esaminano ad uno ad uno, scelgono gli uomini più
robusti, una ottantina, e li spediscono in appositi campi di
concentramento per i lavori in Germania. Gli altri, meno abili al
lavoro, sono di nuovo rinchiusi nella scuderia della Canapiera.
Sono
ore di trepida attesa e di penoso sconforto.
Si
forma un tribunale per interrogarli sommariamente e giudicarli.
Presiede un ufficiale tedesco, assiste al suo fianco un giovanotto
diciassettenne di Calvenzano, un vigliacco traditore che tutto il
giorno prima avea guidate le S.S. alla caccia dei partigiani e dei
civili che egli indicava come favoreggiatori, assicurando di poterlo
fare, perchè da tempo si era finto partigiano e viveva in mezzo a
loro per spiarli.
Passano ad uno ad uno.
P.
Basilio è interrogato sul modo come è stato rastrellato, se
conosce il parroco di San Martino di Caprara, il centro dei
partigiani, e alla sua risposta negativa viene messo in un angolo
ove già attendono gli altri sacerdoti: P. Allusi, d. Venturi e d.
Fornasini. Assieme verranno poi inviati a Bologna per avere da Sua
Em.za il Card. Arcivescovo un documento che comprovi la loro qualità
di sacerdoti.
Si
avanza P. Martino: è tranquillo, della tranquillità che è frutto
della innocenza. Ma ecco che il giovane traditore di Calvenzano gli
punta il dito contro:
—
Ti ho visto coi ribelli a S. Martino di Caprara! — accusa
inesorabile.
Il
Padre rimane un po’ sorpreso, poi si difende: sì, era stato
infatti a Caprara il 15 agosto e dal 7 all'11 settembre vi aveva
tenuto un corso di predicazioni per le feste della Madonna del
Rosario; allora si era anche incontrato con dei partigiani, che,
ricordate?, l'avevano persino minacciato!
Ma
le sue parole sincere non possono cancellare la perfida accusa del
bandito, e viene rimandato nella scuderia.
Poco
dopo anche d. Elia, sotto la stessa accusa, lo raggiunge nello
stanzone e gli getta le braccia al collo. Comprendono che la loro
sorte è segnata.
Fuori
intanto continuano sinistri gli spari lungo la vallata del Reno e
per le alture si alzano vorticose le fiamme dalle case, dai pagliai
e dai roghi ferali ove i cadaveri, cosparsi di benzina, bruciano con
odore nauseabondo.
Domenica: primo ottobre.
A
Salvaro si celebra la festa della Beata Vergine del Rosario e fin
dal primo mattino i fedeli si riversano in chiesa, si buttano
supplici ai piedi di Maria per strapparle la più grande grazia: la
liberazione dei loro cari.
Nel
pomeriggio vengono tolti ai 45 prigionieri i documenti, i
portafogli, gli orologi e quanto tengono nelle tasche.
È
il colpo fatale ad ogni loro illusione: capiscono che ormai è vana
ogni speranza e che bisogna morire.
P.
Martino, fino allora taciturno e spesso immerso nella preghiera, si
accosta a d. Elia, si abbracciano fraternamente, si appartano in un
angolo della stanza, parlano fra loro sommessamente e poco dopo i
circostanti vedono i segni di croce che si tracciano a vicenda. È
l'ultima confessione: la preparazione prossima a presentarsi al
tribunale di Dio.
Ore
19,30. Già il sole è calato dietro le creste di Monte Pero e
il roseo sfrangiato delle nubi si va incupendo nella foschia del
crepuscolo.
Un
triste corteo si incolonna sulla strada dalla scuderia della
Canapiera e si dirige, scortato dai mitraglieri, alla «botte» (*)
della Canapiera. La «botte» è senz'acqua, il fondo è un alto
strato di melma.
A
pochi metri vengono piazzate le mitragliatrici. A tutti si tolgono
le scarpe, a qualcuno anche la giacca, ai sacerdoti il soprabito;
poi li dispongono in fila sui margini della «botte».
D.
Elia Gomini si riscuote, guarda attorno, alza la mano e a voce alta
dice le parole dell'assoluzione. Molte mani si levano nel segno
della croce. Poi rivolge gli occhi fiammeggianti al cielo e grida più
volte:
—
Pietà!... Pietà, Signore! —
È
l'accorata supplica del pastore che invoca per le sue pecorelle; è
l'incontenibile invocazione dell'animo innocente che non sa capire
perchè la morte debba raggiungere vilmente ingiusta tanti
innocenti.
Ma
la sua voce angosciata viene troncata da una spietata raffica di
mitraglia.
Sono
le 19,35; cadono le vittime riverse. e a poco a poco anche gli
ultimi soffocati gemiti vanno spegnendosi.
Ad
uno ad uno sono passati in rassegna e sui meno colpiti si
accaniscono ancora i carnefici a colpi di fucile.
Poi
tutti sono rovesciati nella melma della «botte».
Ancora
gettano, in quel carnaio, delle bombe a mano e gli aguzzini se ne
vanno soddisfatti.
Alcuni
giorni dopo due di essi si millanteranno in paese:
—
Due Pastoren kaput! —
(*)
La
«botte» è un serbatoio d'acqua alla fine del canale, a fianco del
Reno, e serve per regolare l'acqua che dà l'energia elettrica alla
canapiera.
|
Il Servo di Dio padre
Martino
CAPELLI
Nato a Nembro (Bergamo) da Martino e Teresa Bonomi
il 20 settembre 1912. Nel 1924 entrò nella Scuola Apostolica di
Albino, nel 1930 emise la prima Professione religiosa nel Noviziato
di Albisola Superiore; fu ordinato sacerdote a Bologna il 26 giugno
1938 dal Card. Arcivescovo Nasalli Rocca; dall'ottobre 1943 era
professore allo Studentato delle Missioni sfollato a Castiglione; il
1 ottobre 1944 muore a Pioppe di Salvaro. |
Il giorno 20 novembre 2011 presso la Cattedrale di San
Pietro di Bologna, si è svolta la Sessione Conclusiva del Processo
Diocesano di Beatificazione dei tre sacerdoti della diocesi (don
Ferdinando Casagrande, don Giovanni Fornasini, don Ubaldo Marchioni),
qui sotto l'invito che è stato mandato al punto pace Bologna da don Alberto Di Chio, il
postulatore dei tre sacerdoti.
Suor Maria Nerina FIORI
Vergine e martire
Maria
Nerina Fiori maestra e suora delle Maestre Pie dell’Addolorata, 43 anni,
conosciuta come “suor Ciclamino” per la sua indole gentile. Invitata a
rifugiarsi a Bologna – dov’era la sua casa religiosa di appartenenza –
aveva detto: “Non posso! Debbo preparare i bambini alla prima comunione.
Poi tornerò”. Per questo è stata definita “martire della prima
comunione”. Era uno scricciolo di un metro e mezzo, maestra di prima
elementare, portata spontaneamente a farsi piccola con i piccoli di cui
si occupava. In una lettera a una consorella, scritta un mese e mezzo
prima della strage, c’è il presentimento del martirio: “Speriamo che il
buon Dio ci mandi le pene solo per quel tanto che siamo capaci di
sopportarle, e lui stesso sarà sempre con noi. Io lo prego sempre che ci
conceda di ritornare tutte nella nostra casa di Bologna e di poter
lavorare per la sua gloria”.
Viene
uccisa dai tedeschi con altri 54 nella strage della concimaia, a San
Giovanni di Sotto (Bologna), il 29 settembre 1944, mentre conforta
piccoli e grandi. Ci sono 18 bambini con meno di 12 anni, - lei è la
maestra di catechismo di quei bambini. Al momento della sparatoria li
tiene per mano, accarezza i più piccoli, come nelle foto di classe, - in
quella folla di innocenti che i nazisti rastrellano per tutto il paese e
ammassano sullo sfondo della concimaia. Li mettono in fila: davanti i
bambini, dietro i giovani e gli anziani. Poi sparano con le
mitragliatrici. Dal racconto di Mario e Gerardo fratelli di suor Maria,
si sa che suor Maria Fiori si era fermata a San Giovanni per fare
dottrina, il fratello Gerardo al momento dell’eccidio, ha sentito sua
sorella Suor Maria dire a braccia aperte: «Signore, perdona loro, perché
non sanno quello che fanno». Gerardo raccontava che Suor Maria pregava
spesso e faceva pregare gli altri quando erano nel rifugio. Il 29
settembre del 1944 Gerardo era nascosto con il fratello Mario non molto
lontano dall’eccidio. Gli uomini si erano fatti dei buchi nel terreno e
al vedere o al sentir dire che i tedeschi li cercavano, si nascondevano
in questi buchi coprendo l’apertura con rami e foglie. In quel giorno
gli uomini erano andati a nascondersi in questi buchi, mentre le donne,
i bambini e i vecchi erano nei rifugi, perché si pensava che i
rastrellamenti venissero fatti solo per gli uomini buoni per il lavoro.
Fu in questa circostanza che Mario e Gerardo, a poca distanza
dall’eccidio, poterono vedere e sentire tutto, incapaci di fornire
aiuto. Mario e Gerardo trovarono Suor Maria morta e curva sopra i
nipotini a braccia aperte. Appena fu possibile, insieme con gli altri
pochi superstiti, seppellirono lì sul luogo i loro cari. La fossa fu
scavata a sei, sette metri dal luogo dell’eccidio dove ora è il cippo a
memoria dell’evento.
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