|
La guerra e i suoi effetti
collaterali |
|
San Giovanni di Sotto - la
strage degli innocenti |
|
Le 33 ore di Cerpiano |
|
Casaglia - il racconto dei
superstiti |
|
La morte di pastori e
gregge, testimonianza di comunione |
|
L’eccidio della Botte di
Salvaro |
|
Le lettere di Antonietta
Benni |
|
Intervista a Francesco
Pirini |
|
Dal Corriere della sera del
30/09/2004 |
|
|
|
Testimonianze dell’eccidio (tratte da "Le querce di
Monte Sole" di mons. Luciano Gherardi)
49MNP_marciastory_marcia_cremona"La guerra e i suoi effetti collaterali"
Chi vide Monte Sole in quel tragico giorno di San Michele, lo paragona
alla navata maggiore di una cattedrale nel rito lucernare della notte di
Pasqua.
Tutta l'operazione, elaborata dal maggiore Loos, si svolse con teutonica
pignoleria sotto il comando del gen. Simon mediante una classica manovra,
in cui i vari reparti (c'erano persino dei russi di razza mongola)
muovendo da Vergato, Pioppe-Sibano, Marzabotto, Vado, Rioveggio,
investirono la zona «X» in una morsa di ferro. Cunei di SS penetrarono
all'interno di questo sconosciuto lembo dell'Appennino, e colpirono
spietatamente .... Successivamente, alcuni ufficiali diranno di avere
eseguito gli ordini con grande ripugnanza. A Cerpiano e a Casaglia, come
alla Creda, dovettero verificarsi episodi di obiezione di coscienza da
parte di soldati che reagirono agli orrori della carneficina. Attuando il
piano di Kesselrìng di ripulire la zona a tergo della linea gotica dai
partigiani della Stella rossa, le SS portarono a compimento l'escalation
più volte minacciata nei proclami degli ultimi mesi: prima la
rappresaglia - dieci ostaggi contro uno; poi la criminalizzazione di
tutta la popolazione come complice dei ribelli; quindi la strage.
San Giovanni di Sotto - la strage
degli innocenti.
A San Giovanni di Sotto non vi fu nessuna lotta, nessuna
resistenza. Gli uomini si erano nascosti nei boschi; rimase allo scoperto
chi riteneva di essere protetto dalla propria debolezza. E’ quanto
deposero al processo-Reder Giuseppe Lorenzini e Gerardo Fiori. Si legge
nell'estratto del dibattimento: “Lorenzini Giuseppe aveva lasciato al
Casoncello la sua famiglia. La ritrovò bruciata a San Giovanni di Sotto.
Gli uccisero un bimbo di 5 anni (Agostino) e uno di 4 (Pietro)... Rileva
il Collegio che in questi bimbi il più sospettoso nemico non poteva
intuire il minimo pericolo”…..
“Entrarono in San Giovanni dispiegandosi a tenaglia, sloggiando dalle
case e dalle stalle gli occupanti e ammassandoli sullo sfondo della
concimaia insieme agli altri che erano stati strappati dal rifugio. Li
misero in fila con un macabro rituale: davanti i bimbi, dietro i giovani e
gli anziani. Le mitragliatrici falciarono 50 vite umane. Fra le vittime,
Maria Fiori con il collarino bianco e la tipica cuffietta delle Maestre
Pie rendeva l'immagine di un angelo confortatore che, fino all'ultimo,
aveva sostenuto quella folla inerme”.
Antonietta Benni, nel suo memoriale, dà un particolare che fa capire
l'immensità della tragedia riflessa nel volto di una bambina:
“A San Giovanni di Sotto - dice - vi furono ben 50 vittime; fra esse la
numerosa famiglia Fiori con suor Maria che in quell'epoca era con i suoi
cari. La nipotina Anna Maria di otto anni era rimasta viva. Per tre giorni
è stata aggrappata al collo della mamma chiamandola, baciandola e
piangendo...Il babbo, unico superstite, l'ha trovata così, morta di fame
e di sfinimento".
Le 33 ore di Cerpiano
A Cerpiano, quel tragico venerdì 29
settembre, Don Marchioni era atteso per celebrare la Santa Messa
nell'Oratorio dedicato all'Angelo Custode.
Ma la paura più folle aveva invaso tutti, poiché i tedeschi stavano per
arrivare. Qualcuno aveva suggerito di nascondersi nel rifugio del bosco,
anzi il grosso della gente vi era già; ma ecco che si dice essere
imprudente lasciare una casa così grande abbandonata: “Ci verranno a
cercare, ci crederanno tutti partigiani nascosti e ci uccideranno”.
Qualcuno resta, ma una cinquantina ritorna indietro seguendo il consiglio
di chi ha più autorità e rifugiandosi nella cantina del “Palazzo”
dove abitualmente ci si riparava per le cannonate frequenti.
Arrivano i tedeschi.
Fanno salire queste 49 persone dalla cantina alla cappella attigua al
“Palazzo”: sono 20 bambini, due vecchi quasi invalidi e 27 donne fra
le quali tre maestre. Chiudono accuratamente le porte e poi...comincia il
getto fatale delle bombe a mano. Sono le nove del mattino e 30 vittime
sono immolate. Chi può ridire ciò che è passato fra quelle mura nella
lunga giornata, nell'ancor più lunga notte e nella penosa mattinata del
giorno 30?
Feriti che si lamentavano invocando disperatamente aiuto; bimbi che
piangevano, mamme che tentavano di proteggere
le creature superstiti.
Una donna, Amelia Tossani, voleva fuggire ad ogni costo; aperta la
porticina laterale è stata da un tedesco di guardia freddata sulla
soglia, sicché il suo corpo è rimasto metà dentro e metà fuori e la
notte i maiali randagi ne hanno rosicchiato il capo fra l'orrore di chi,
impotente, assisteva a tale spettacolo.
Il povero vecchio Pietro Oleandri ha sentito una sua mucca muggire: non ne
può più di stare in mezzo ai morti fra i quali c'è la sposa del unico
figlio prigioniero in Germania e due dei nipotini amatissimi. Prende per
mano il terzo nipote superstite di cinque anni e sta per uscire: una
raffica...un uomo e un bimbo sono nell'eternità!
Una signora di Bologna, Nina Frabboni Fabris, da poco tempo sfollata lassù,
è rimasta ferita gravemente e si lamenta per ore ed ore con alte grida.
Un tedesco di guardia, senza cuore, seccato di questo urlare, entra e con
un colpo di fucile uccide la disgraziata fra il terrore dei superstiti...
Chi gettò le bombe dalla finestra dell’oratorio, colpì nel
“mucchio” considerando le vittime una massa anonima. In realtà sono
loro, le truci SS, ad apparire una turba senza volto.
Casaglia
- il racconto dei superstiti
Nel coro a più voci si inserisce
Antonietta Benni col noto promemoria ribadito al processo-Reder:
“Don Ubaldo Marchioni, quella mattina di San Michele, stava per venire a
celebrare la santa Messa a Cerpiano, dopo aver fatto una devota e
commovente funzione a San Martino esortando tutti a fare la preparazione
della morte.
Passando dalla chiesa di Casaglia, dove si era proposto di consumare le
sacre specie e trovandovi un centinaio di persone in preda al più
comprensibile panico, si ferma tra i suoi figli recitando con loro il
santo Rosario.
Ecco i temuti tedeschi: entrano in chiesa intimando a tutti di uscire per
avviarli in corteo al cimitero.
C'è una povera donna paralizzata alle gambe, Vittoria Nanni, che tenta di
muoversi seduta o aggrappata alla sua sedia; i tedeschi vogliono
costringerla a lasciare l'appoggio e constatato che non le è possibile,
la fucilano in chiesa in presenza di tutti.
Nel campanile restano, forse in un tentativo di nascondersi, la buona
Enrica Ansaloni e Giovanni Betti di Gardelletta; sono fucilati lì nel
campanile. Il marito dell'Enrica, Giuseppe Ansaloni, fratello del defunto
arciprete, era con alcuni uomini sul Monte Sole dove anche i partigiani si
erano ritirati. Di lassù assistette impotente all'eccidio del cimitero e
impazzì quasi istantaneamente. Portato a Bologna morì pochi giorni dopo.
Elide Ruggeri racconta:
“Fummo avviati con le armi
puntate ai fianchi verso il cimitero a duecento metri di distanza. Era
recintato e la porta di ferro chiusa. La sfondarono coi calci dei fucili e
ci fecero entrare tutti nel recinto e noi ci addossammo in mucchio contro
la cappella.
Poi piazzarono una mitragliatrice all'ingresso e cominciarono a sparare,
mirando in basso per colpire i bambini mentre dall'esterno cominciarono a
lanciare su di noi decine di bombe a mano. Durò per tre quarti d'ora
circa, e smisero solo quando fini l'ultimo lamento.
Ferita, restai tra i cadaveri... Con me uscirono vive altre quattro donne.
Anche il prete morì. Fu fucilato sull’altare della sua chiesa e dopo
averlo ucciso i nazisti spararono sulle immagini sacre e incendiarono la
chiesa e le case intorno con i lanciafiamme.
Tre giorni dopo, i tedeschi ordinarono ai civili
di seppellire i cadaveri. Fecero una grande buca e li schiacciarono perché
si erano irrigiditi”.
La morte di pastori e gregge,
testimonianza di comunione
Don Fernando — dice — usciva di quando in
quando anche di giorno, specialmente nell’intervallo fra lo sgombero
delle SS e l’arrivo della Wehrmacht. Andava a visitare i suoi
parrocchiani rintanati qua e là. È venuto anche da me nel bosco. Ero
ferito e mi ha portato della tela per fasciarmi. Me la sono cavata per
miracolo, perché sotto le armi mi avevano fatto l’antitetanica...
Il racconto del Monari ci conforta e
ci inquieta. Cos’è realmente avvenuto dal 29 settembre al 9 ottobre? Se
un’esperienza umana e cristiana si giudica dai costi di fatica e di
dolore, è solo in un registro mistico che si può valutare quella
sequenza interminabile di ore, in cui Fernando, Giulia ed altri fra i
pochi sopravvissuti vagarono come ombre.
Qualche indizio affiora dal silenzio: sprazzi di luce, gesti che
illuminano la vita di una comunità sommersa. Una storia che non potrà
essere mai scritta interamente.
Alla famiglia Casagrande nel suo rifugio naturale qualcuno portò dei
viveri fin che fu possibile: Imelde Luccarini, Veglia Nadalini, Maria
Vallisi..., almeno fino ai giorni della fame rodente a cui accenna
l’agendina di Augusto. Inoltre i superstiti ebbero cura, fra rischi e
stenti intuibili, di scavare le fosse comuni in cui raccolsero i loro
morti. A questa impresa partecipò anche don Fernando. Pregò e collaborò
con le donne e i vecchi che svolgevano il ruolo di fossori, in carenza dei
giovani occultati nei boschi. Forse aspettava la notte — quando le SS si
ritiravano nelle loro basi a fondo valle, stranamente addobbate come nights,
a stordire nella droga la mala coscienza — per uscire dalla grotta e
prendere contatto con la sua comunità dispersa. A suo modo fu quella la
visita di Pasqua: un’ultima rassegna pastorale dei suoi parrocchiani.
Visitò e benedisse dolenti figure di sepolti diurni…
L’eccidio
della Botte di Salvaro
L’eccidio
della Botte fu consumato il 1° ottobre, a vespro…In due gruppi gli
ostaggi erano stati condotti alla canapiera. Prima che venissero falciati
a colpi di mitraglia, don Comini aveva intonato le litanie della Vergine.
Il canto alla Regina del cielo sull’orlo dell’abisso si sente in
lontananza...
Solo una fantasia macabra poteva trasformare la cisterna della filanda in
un poligono di tiro. Era, quella vasca quadrata, un‘immagine popolare,
simbolo di una faticosa prosperità lungo la sponda del fiume. Lo
stabilimento tessile, considerato come un fiore all’occhiello dalla
popolazione del medio-Reno, entra nella topografia della strage con
l’oratorio di Cerpiano, il cimitero di Casaglia, l’aia di San Martino,
la concimaia di San Giovanni di Sotto, la rimessa della Creda...
Pio Borgia, scampato insieme ad Aldo Ansaloni — altri tre non fecero che
trascinare per un piccolo tratto le loro membra straziate — riuscì ad
arrivare alla canonica di Salvaro: “Con la faccia insanguinata —
ricorda don Angelo Carboni junior — entrò in cucina, dove le donne e i
bambini erano intorno al fuoco con il vecchio arciprete... Parzialmente
coperto dal corpo di don Comini, era sfuggito alla scarica mortale; e, pur
ferito, poté scorgere padre Martino che con uno sforzo immane si alzava
dal fango della botte; e, premendosi con una mano il ventre orribilmente
squarciato, con l’altra tracciava un segno di croce ampio e solenne
sulle vittime della carneficina. Poi era ricaduto con le braccia aperte
nella cisterna…”
Il
più grande frutto della Fede: il perdono delle vittime.
(lettere di
Antonietta Benni)
"Proprio
in questi giorni sono stata turbata e assediata dai giornalisti in seguito
alla supplica inviata ai Sindaco di Marzabotto dal maggiore Reder, uno dei
responsabili dell'eccidio e condannato all'ergastolo dal Tribunale
militare di Bologna. Implora dai superstiti e dai parenti delle vittime
il perdono. La rievocazione di questi fatti tanto dolorosi mi ha
turbato assai. Tuttavia come cristiana e come appartenente a un ordine
religioso, ho detto che io perdono.
Ho fatto bene?, non lo so, Il mio parroco ha detto che ho fatto bene, ma
certo che ho provocato nei parenti delle vittime che non si sentono di
perdonare al massacratore, un po' di scalpore. Però quelli di Gardelletta,
a me personalmente, non hanno detto niente. Si sono meravigliati che dopo
tutto quello che ho sofferto abbia avuto il coraggio di perdonare..."
Nello stesso contesto, in
data 21 luglio, scrive alla nipote Maria:
"Sto bene, grazie a Dio, Il caldo torrido non mi dà fastidio. Mi
hanno disturbato invece le numerose interviste. Ormai non ne potevo più;
tanto che il 15 sono andata via dalla zona e anche a Marzabotto non sono
andata... Il mio voto l'ho mandato per iscritto. Perdono cristiano sì,
grazia no. Perdono cristiano si, perché ogni cristiano ha da Cristo
l'esplicito ordine di perdonare, e se qualcuno non perdona diventa in
fondo come Reder: cioè odia e l'odio porta a fare quello che ha fatto
lui... La parola perdono non è piaciuta a molti e ha provocato molti
commenti. Ad ogni modo io sono tranquilla e questo mi basta".
Intervista a Francesco Pirini (testimone oculare della strage di
Cerpiano)
Nel 1944 avevo 17 anni, abitavo alle Murazze, vicino alla ferrovia
Direttissima, posto
pericolosissimo per via dei bombardamenti alleati. Purtroppo già il 18
aprile di quell’anno avevo perso mio padre durante uno di questi a Vado.
Con il resto della mia famiglia decidemmo quindi di trasferirci a Cerpiano,
dove con la scuola delle Orsoline della maestra Antonietta Benni e con
l’oratorio, si poteva trovare un po’ di fermento, oltre che di
sicurezza. Avevamo molte speranze, gli Inglesi erano già a Monzuno e a
Lagaro, sull’altro versante.
La mattina del 29 settembre mi alzai presto perché stava piovendo e
dovevo trovare erba da seccare per i conigli: aveva appena albeggiato,
quando giù nella valle vidi bruciare le prime case. Un rastrellamento!
La voce si sparse subito e gli uomini che rischiavano la deportazione si
affrettarono a rifugiarsi nel bosco. Con me, verso la cima di Monte Sole,
si avviarono i partigiani che dormivano nel fienile, per lo più giovani
della mia età senza esperienza militare e con tanta paura. Donne, anziani
e bambini rimasero, era impensabile che avessero qualcosa da temere…era
già successo che i Tedeschi buttassero giù le porte di Cerpiano in cerca
di partigiani, per poi rimanere di sale nel vedere che lì non vi erano
che bambini; il comandante stesso fu così turbato che si raccomandò di
scrivere in italiano e in tedesco che quello era un asilo e niente più!
Un segno che avevamo anche buoni rapporti con la Wermacht.
MA STAVOLTA ERA DIVERSO!
Salendo, i Tedeschi ci sparavano così vicino che mi spaventai e che
decisi di ritornare indietro, nascondendomi nel fosso davanti al Palazzo
per vedere ciò che accadeva. Così vidi le SS chiudere tutti
nell’oratorio, vidi le bombe a mano lanciate attraverso le finestre, e
sentii le grida e i lamenti innalzarsi subito e spegnersi molto
lentamente, mentre nel Palazzo un tedesco suonava l’armonium.
Paralizzato dalla paura, rimasi nel fosso, sotto la pioggia, fino a notte,
poi scappai dal mio rifugio. Dalla prima casa che incontrai mi scacciarono
dandomi un tozzo di pane: sapevano già che ero un testimone troppo
pericoloso da ospitare. Così, intriso di pioggia, con quel pezzetto di
pane e qualche castagna vagai nei boschi per 10 giorni, finché non
incrociai una pattuglia di americani che mi inviò a Monzuno, dandomi una
scatola “magica” con roba che non sapevo neanche esistesse: ma ricordo
la cioccolata, soprattutto! Rimasi con loro per 7 mesi.
Grazie al lavoro di alcuni giornalisti tedeschi ho imparato pochi anni fa
il nome dell’ufficiale che comandava la pattuglia che a Cerpiano ha
sterminato la mia famiglia: Albert Meier. Era ottantenne e oramai
paralitico, ferito sette volte in guerra, e, durante un’intervista,
aveva detto che, se avesse ricevuto l’ordine, avrebbe ripetuto ciò che
ha fatto. Dopo di ciò, si è presentato qui un giornalista dalla Germania
che mi ha chiesto un parere su questa intervista: be’, io gli ho
risposto che, se avessi incontrato Meier, l’avrei perdonato (con sua
grande sorpresa, tanto che gliel’ho dovuto ripetere più d’una volta)
e, anzi, che sua moglie l’avrei abbracciata, perché deve essere stato
difficile vivere accanto ad un uomo simile. Nel frattempo, il Tribunale
militare di La Spezia aveva avviato il procedimento per l’interrogatorio
di Meier, ma lui è morto prima che potesse venite in Italia: mi è venuto
da dire che adesso i conti li fa con qualcun altro di più importante! A
queste considerazioni non sono arrivato facilmente, per niente: solamente
per iniziare a parlare di questi fatti mi sono serviti vent’anni…e
solo perché qualcuno ha insistito tantissimo sull’importanza che lo
facessi. Non parlavo, ma scrivevo, segnavo su un foglietto tutti i nomi
dei massacratori che emergevano dalle indagini: senza vendetta, ma dovevo
ricordare e sapere.
Il ricordo personale è diventato una necessità già nell’immediato
dopoguerra quando contemporaneamente si è fatto un pesante silenzio su
alcuni fatti e una gran confusione su altri, poi nella nostra vita è
entrata la politica e con essa le divisioni tra chi accusava i partigiani
di essere la causa di tutto e chi manipolava l’ignoranza dell’accaduto
a suo favore: le stesse testimonianze dei sopravvissuti cambiarono, a
volte in funzione delle posizioni politiche assunte. Così, però si
rischia, perché anche Meier magari era una persona normale e poi è stato
manipolato dai nazisti.
E poi c’erano le difficoltà pratiche: chi è rimasto come me ha dovuto
faticare non poco per difendere la propria dignità e i propri ricordi,
aspettando prima la bonifica del territorio dalle migliaia di mine
tedesche e rimboccandosi poi le maniche per la sua salvaguardia; solo nel
1975, con due sacerdoti polacchi, abbiamo avviato, come nostra personale
iniziativa, la pulizia dei ruderi della chiesa di Casaglia. In questi
frangenti mi sono dispiaciute in modo particolare l’assenza della Chiesa
di Bologna da questi luoghi e la lontananza dai suoi abitanti, molti dei
quali hanno perso la fede insieme alla famiglia. Io ci avrei tenuto molto,
essendo praticante…ero il chierico di don Ubaldo quando veniva a
celebrare a Casaglia.
Mi ricordo i sacerdoti, generosi, sempre pronti ad aiutare tutti: e anche
ai partigiani non negavano mai loro un bicchiere di vino in canonica,
anche se spesso gli ospiti non si comportavano in modo molto garbato.
Per Monte Sole avrei una idea: che si facesse un monumento che indichi le
cifre dei morti nella zona, dei civili, sì, ma anche dei soldati, a
ricordare che, soprattutto, erano figli, con una mamma e un papà che li
aspettavano a casa.
Dal "Corriere della Sera" del 30 settembre 2004
Con gli scampati nel cimitero della strage «Le
SS ci spararono addosso per 7 ore»
Marzabotto, 60 anni fa l' eccidio nazista. Le vittime
furono 1.836, tra loro 250 bambini «Mi afferrarono i capelli per vedere
se ero vivo. Finsi di essere morto e mi salvai». Tra il 29
settembre e il 5 ottobre del 1944 la 16a divisione dei panzergranatieri
delle SS, comandata dal maggiore Walter Reder, massacra quasi duemila
civili tra Marzabotto, Monzuno e Grizzana, comuni dell' Appennino
bolognese. Il dato ufficiale è di 1.836 vittime, i corpi
identificati sono 1.562 (di cui quasi 800 nella sola Marzabotto).
Le celebrazioni ufficiali del sessantenario della strage si
terranno il 3 ottobre
Reportage 1944-2004
Mo Ettore I SOPRAVVISSUTI I soldati ci spinsero come un gregge
di capre
destinate al macello. Aprirono il fuoco. Altri lanciarono bombe a mano MARZABOTTO
- È successo 60 anni fa, a fine settembre del ' 44: uno degli eccidi più
atroci della seconda Guerra mondiale, che pure ne ha annoverati tanti, a
cominciare dallo sterminio degli ebrei. Anche alla luce di quanto
sta oggi avvenendo, con la sequela di stragi, sequestri,
sgozzamenti e macellerie varie, scatenata dall' assalto alle Due torri, le
barbarie commesse quell' autunno dai nazisti sull' Appennino emiliano
mantengono il loro triste primato nella galleria degli orrori. Le
celebrazioni ufficiali del sessantenario avranno luogo il 3 ottobre e
nell' intenzione di Dante Cruicchi (ex sindaco di Marzabotto)
e di tutti i membri del comitato organizzatore si concluderanno
con «un messaggio di pace». Non sembrano più esserci zone d'ombra o angoli inesplorati della tragedia, essendo stata raccontata e «sviscerata»
per oltre mezzo secolo, anche se gli anziani, che erano allora bambini,
scuciono ancora dalla memoria qualche particolare. Pochissimi i superstiti
- cioè, gli scampati alla morte - che sono via via scomparsi o vivono
altrove. Comunque non più di una mezza dozzina. Passeggiando
dentro questo paesaggio così verde e boscoso, e così pacifico, ne
incontro tre: che, rassegnati/e, ripetono il racconto già fatto cento,
mille volte. Anna Dainesi è ora una tranquilla signora di 68
anni, la incontro davanti al sacrario di Marzabotto, che
custodisce le vittime della strage, tra cui 315 donne e 189
bambini. Racconta la strage del cimitero di Casaglia,
dove gli uomini del maggiore Walter Reder - che comanda la 16ª Divisione
dei panzergranatieri nella zona dell' Appennino bolognese ed è chiamato
«il Monco» per un arto artificiale - ammassano la mattina del 29
settembre '44 centinaia di persone: «Io avevo 8 anni e mezzo -
dice con la fretta di chi ripete a memoria una vecchia cantilena
- e con la mamma mi ero rifugiata nel bosco ma in tempo per vedere la fila
di gente che le SS spingevano a calci nel recinto del camposanto.
Tra di loro c'era mio fratello Albertino, 15 anni, che non
rividi più. Fu una mattanza. C'era anche il mio fratello più piccolo,
Alfredo, 7 anni, che rimase ferito nella sparatoria e morì 40 giorni
dopo. Se ho visto Reder? Altro che l' ho visto, il Monco. Veniva giù
nello scantinato dove c'erano rifugiati e toccava le ragazze con quella
sua mano di legno. Prendeva quelle più giovani e le portava al
piano di sopra, dove insieme ai suoi uomini, le violentava.
Ridiscendevano tra noi completamente nude, piene di lividi e
ferite». Secondo gli storici, la gratuita feroce rappresaglia tedesca
sulle popolazioni inermi dei villaggi dell'altopiano raggruppati attorno
a Marzabotto, Monzuno, Grizzana viene intrapresa da Walter Reder
in un momento di frustrazione per lo scarso (quasi nullo)
successo delle operazioni militari fino ad allora tentate dalla 16a
Divisione contro la formazione partigiana «Stella Rossa» che operava in
zona sotto il comando del leggendario «Lupo», al secolo Mario Musolesi.
I partigiani erano un grosso problema per le SS, perché tenevano sotto
controllo le due principali ferrovie - la Porrettana e la Direttissima -
attraverso cui l'Armata di Kesserling faceva arrivare sull'Appennino i rifornimenti (armi, materiale, viveri) alle proprie truppe
attestate sulla Linea Gotica. La «Stella Rossa» - così ragionavano i
tedeschi - poteva sopravvivere nei boschi e nelle forre soltanto grazie
all'aiuto della popolazione locale, che sfamava e proteggeva i partigiani di Lupo nei loro spostamenti clandestini: quei contadini che
giravano con la zappa in spalla e il tridente erano dunque dei «banditi»
e dei «comunisti» e, come tali, andavano puniti. La fase più bestiale
della repressione cominciò il 29 settembre ('44) e durò sette giorni.
Vennero decimate famiglie intere. A San Giovanni e a San Martino (due frazioncine), il plotone d'esecuzione cancellò dalla faccia della terra
in pochi minuti, Pietro e Anna Lorenzini e tutta la loro nidiata, dai 26
ai 3 anni, dieci in tutto: una «cellula» sovversiva di cui
facevano parte partigiani e partigiane di tre, quindici, ventidue
e ventisei anni. È rimasta l'agghiacciante testimonianza di un
certo Giuseppe Lorenzini, scomparso da tempo, che raccontò all'inviato
dell' «Europeo», Gian Franco Vené: «In realtà sono quattordici i miei
parenti ammazzati. Dei miei figli ho ascoltato le urla. Gli altri li ho
visti quando morivano. I nazisti battevano con il calcio del fucile per
metterli in riga, davanti a casa mia. Sparavano con due mitragliatrici,
poi con le rivoltelle, nel mucchio. Rovesciarono infine il mio carro di
fascine sui cadaveri. Nascosero così tutti i morti sotto la legna, e
bruciarono. Sotto la cenere, più tardi, trovammo ciò che restava dei
nostri morti e li seppellimmo nell' aia. Non trovai la testa di
mia nipote, cinque anni». Una delle tappe del nostro pellegrinaggio è il
cimitero di Casaglia, che si raggiunge zigzagando lungo una
strada che sale in alto tra boschi e prati verso la sommità del Monte
Sole. Ci accompagna la signora Cornelia Paselli, che è venuta da
Bologna - dove risiede - per raccontarci la sua storia. Settantotto anni,
ma ben portati, i capelli biondi vaporosi senza tracce di neve,
la camminata svelta. Questi luoghi li conosce molto bene e si è
rassegnata a rivederli per offrirci in loco la sua personale testimonianza
di quei giorni, quando di anni ne aveva diciotto. Ci
fermiamo un attimo davanti ai ruderi della chiesa di Santa Maria
Assunta (che è ora sotto il patrimonio dell'Unesco) perché «è qui -
dice la signora Cornelia - che è cominciato tutto». «Quella mattina del
29 settembre - ricorda - ci siamo rifugiati nella chiesa, per paura dei
tedeschi che pattugliavano la zona. Eravamo circa un centinaio. Sull'altare il parroco, don Ubaldo Marchioni, stava per celebrare la messa: ma
ecco che di colpo piombano in chiesa le SS che intimano a noi
tutti di uscire e di avviarci al cimitero. La prima
vittima è una donna paralizzata su una sedia a rotelle che viene falciata
in due. Poi i soldati fanno fuoco su don Ubaldo, che stramazza ai piedi
dell'altare. Subito dopo comincia la nostra via crucis verso il cimitero,
a poche centinaia di metri...». Ed eccolo qui, il camposanto di Casaglia, sessant'anni dopo. Un muro
di cinta basso, poche zolle
erbose, qualche cespuglio, qualche fiore, una dozzina di croci
sbilenche. E tanta pace, tanto silenzio. «I soldati - riprende la donna -
ci spingono dentro a forza, come un gregge di capre destinate al
macello, dopo aver abbattuto il cancello di ferro. E comincia la
mattanza. Ho visto un soldato inginocchiarsi, infilare il rotolo delle
munizioni nella mitraglia e aprire il fuoco. Altri lanciavano bombe a
mano. Cadevamo uno sopra l'altro, urlando. Ho sentito mia mamma che
chiedeva: Cornelia, sei viva? I miei fratelli gemelli, Gigi e Maria, 10
anni, erano giù morti. Stavo sotto un mucchio di cadaveri col
sangue che mi zampillava addosso, in bocca, sugli occhi. E se questo
sangue fosse il mio? mi chiedevo. Dite l'atto di dolore,
suggeriva qualcuno. No, no! Io da quel giorno, io non l'ho più recitato
l'atto di dolore. Ho perso la fede. Neanche adesso riesco a
dirlo. Ho sempre negli occhi quel tedesco che sparava nel mucchio e io
dicevo a me stessa: no, non voglio morire a questa età. Hanno cominciato
a sparare alle 9 e mezzo del mattino e hanno finito verso le quattro del
pomeriggio. La mia mamma era ferita a una coscia, le ho fatto un laccio
per fermare l'emorragia, ma non ce l'ha fatta, è morta due giorni dopo.
Io sono riuscita a fuggire e adesso credo di aver ritrovato la
fede. Ma l'atto di contrizione, no. No e poi no!». Da queste
parti si cammina, annichiliti, da uno strazio all'altro, in compagnia di
fantasmi evocati via via, sul sentiero, da livide targhe di
pietra o da lapidi consunte che forniscono freddamente l'inventario dei
morti ammazzati. E così apprendiamo che a Casaglia furono massacrate 195
persone, suddivise tra 28 famiglie, e che 50 bambini volarono dritti in
cielo con le alucce insanguinate. In questo nugolo di pargoletti
avrebbe dovuto esserci anche Fernando Piretti, che invece è qui con noi e
ci scorazza attorno con la sua jeep per straducole impervie, schizzose,
dove l'infarto è garantito per le vetture normali. Ha 69 anni, Fernando,
è piuttosto basso ma asciutto e forte. La camminata svelta. Guida e ci
racconta la sua infanzia, guida e ci porta proprio lassù (o laggiù), nel
posto dove sessant'anni fa perse la mamma, Cesarina, e la sorella Teresa,
tredici anni appena, ma uscì vivo e stremato sgusciando sotto il tappeto di
cadaveri che per un giorno e per una notte lo tennero nascosto, mentre le
belve SS bivaccavano intorno, vomitando vino e canzoni. Siamo davanti a un
rudere che un tempo era l'oratorio delle Suore Orsoline nella frazioncina di
Cerpiano. «Noi abitavamo più sotto - racconta Fernando -, ma
quando, a settembre, le SS cominciarono a sparare per intimorire e
snidare, presumibilmente, gli uomini della «Stella Rossa», ci
consigliarono di spostarci in montagna. Sono arrivato a Cerpiano
col papà, la mamma, la sorella Teresa, 13 anni. I miei fratelli più
grandi, tre, stavano coi partigiani e non li avrei più visti. Kaput. Con
tanti altri, le suore ci avevano sistemati in uno stanzone, attiguo all'oratorio. Io facevo il chierichetto. Poi venne la mattina del 29
settembre. Arrivarono i tedeschi e ci spinsero tutti qui dentro. Tre metri
per quattro al massimo, noi ammucchiati alle pareti, il mitra puntato da
una testa all'altra. L'ufficiale diede l'ordine di sparare.
Sarei morto se la mamma non mi avesse coperto col suo corpo, rimasi solo
ferito a una spalla. Mamma e Teresa morirono così. C'era anche una
bambina di sei-sette anni, Paola Rossi, che aveva la faccia piena di sangue e si lamentava, ma alla fine, come me, ne è uscita
viva. Ai feriti davano il colpo di grazia. A un certo punto una
mano mi afferrò per il ciuffo e sollevò la mia faccia, che lasciò
ricadere, credendomi morto. Anche la maestra Benni era ancora viva e ci
bisbigliava: "Zitti bambini, zitti che tornano e ci ammazzano".
I soldati rovistavano tra i cadaveri arraffando tutto quanto c'era da
arraffare, anelli, catenine, spille, borse. Io facevo il morto e li
vedevo, gli sciacalli». «Pietà per i morti di Cerpiano di Monzuno», c'è scritto sulla lastra
di marmo, appesa al rudere,
coi nomi delle 56 vittime dell'oratorio. Il ricordo del massacro non potrà
mai essere cancellato, ma quassù, adesso, si respira un'aria diversa,
depurata dall'angoscia del passato: «Un'aria di vera pace»,
suggerisce uno dei monaci della Piccola famiglia dell'Annunziata, una
comunità davvero minuscola, fondata da Giuseppe Dossetti, che vi mise
piede intorno all'85 e vive in francescana povertà. Ora et labora, è la
massima di sempre: così nessuno deve sorprendersi se, per
sbarcare il lunario, i fraticelli hanno allestito un laboratorio per la
produzione dei tacchi a spillo. Dossetti, che si fece monaco dopo essere
stato capo partigiano a Reggio Emilia, membro della Costituente e leader
della sinistra nella Dc di De Gasperi, volle essere sepolto sull'Appenino, alle pendici del Monte Sole: e dal dicembre
del ' 96 - anno della morte - riposa nel cimitero di Casaglia.
Per lui, le piccole comunità tra i due fiumi - il Reno e il Setta - erano
«comunità di fede», legate insieme dal filo di ferro
dei valori tradizionali (casa e chiesa), mentre per lo storico Luciano
Gherardi le parrocchie sulle due sponde sono «l'equivalente delle
comunità ebraiche dell' Europa orientale»: e questo spiega il
particolare accanimento dei nazisti che agivano in nome di un'
altra «fede». Con Ubaldo Marchioni vennero trucidati altri quattro
sacerdoti e la stessa fine toccò a una religiosa, Suor Maria Fiori, più
nota come Suor Ciclamino per la sua indole gentile. Qualche giorno dopo il
massacro, le SS tornarono nel cimitero di Casaglia vestiti da
prete e «impiccarono al cancello Cristo e la Madonna»; altrove,
abbatterono a raffiche di mitra le statue di legno dei
santi. Con tutto ciò, la maestrina delle Orsoline, Antonietta Benni,
sopravvissuta all' eccidio dell'oratorio, fu una delle
quattro-persone-quattro che accordarono il perdono al maggiore Reder,
quando lo chiese. È l'aprile del '67 quando, dalla sua cella nella
fortezza borbonica di Gaeta, il maggiore Walter Reder -
condannato all'ergastolo nel '51 dal tribunale di Bologna -
scrive una lettera al sindaco di Marzabotto
supplicandolo di intercedere presso la popolazione affinché «mi
conceda il perdono per il sangue sparso e per i danni recati alla Città-Martire».
Ma non è, il suo, l'appello di un pentito macerato dai rimorsi:
ci mette di mezzo la madre, sua madre, «che ha già perso tre
figli... e affranta dal dolore tende le mani verso Marzabotto»
perché le restituisca «l'unico figlio che le è rimasto». Non
sorprende che, turbati da tanta filiale delicatezza, i parenti delle 1.836
vittime delle SS abbiano ignorato la supplica, lasciandolo invecchiare in
carcere. Rimesso in libertà nel gennaio del 1985, Reder il Monco tornò
in patria, dove le associazioni combattentistiche germaniche lo
consideravano la «vittima innocente di una sudicia congiura di
comunisti italiani». Sollevato da questo verdetto assolutorio, l'ex
comandante della 16a Divisione di panzergranatieri si spense a
Vienna il 26 aprile '91. Certo, lassù, erano in molti ad aspettarlo:
specie nello sterminato asilo infantile che il buon Dio aveva sistemato
sui batuffoli più soffici delle nuvole e di cui, dopo Erode,
Reder era stato il più solerte fornitore. In testa al Comitato d'accoglienza avrebbero messo Anna Pardini, che aveva solo 20 giorni quando,
da Sant'Anna di Stazzema, fu sparata direttamente in paradiso.
Finita la guerra, Marzabotto e gli altri paesi arroccati tra il
Reno e il torrente Setta avevano più morti da piangere che tutti gli
altri: ma nel clima arroventato dalle contese politiche cominciarono
subito (e durarono a lungo) le polemiche sulla responsabilità e le
dimensioni delle stragi. I partiti del centrodestra mettevano in
discussione il ruolo di «Stella Rossa» e di altri
gruppi partigiani, accusati di aver provocato la dura reazione
dei nazifascisti, che altrimenti sarebbero stati buoni buoni con la
popolazione locale, impegnati com'erano ad affrontare gli Alleati sulla
Linea Gotica. C'era poi, tra la gente, un clima molto teso di
disagio e sospetto per quei sette giorni di mattanza di
fine settembre del '44, anche perché ogni documento ufficiale stava
chiuso, anzi sigillato, negli archivi di Stato. Infatti, la
storia di Marzabotto e di tante altre stragi
naziste che insanguinarono l'Italia dal '43 al '45 era nascosta tra le
pagine di 695 fascicoli, pigiati e custoditi in quello che
sarebbe stato definito «L'Armadio della Vergogna». L'armadio -
racconta Franco Giustolisi nel suo libro che conserva il «respiro» di
un giallo nonostante la meticolosa documentazione storica - è stato
rinchiuso per cinquant'anni in un palazzo cinquecentesco di
Roma, sede della Procura generale militare, «rifilato in un vano
recondito, protetto da un cancello con tanto di lucchetto». In
415 dei 695 fascicoli c'erano nomi e cognomi dei responsabili dell'eccidio a cominciare da Kappler e da Priebke. E pare sia stata svelata
anche l'identità dell'infanticida di Sant'Anna di Stazzema. Quella che avrebbe dovuto essere un' «archiviazione provvisoria»
è durata così mezzo secolo. L'occultamento dei fascicoli fu deciso dai
vertici dello Stato per assecondare lo sviluppo dei nuovi equilibri
internazionali ed europei nei giorni della «Guerra fredda» ed era parso
opportuno ai nostri ministri d'allora lasciar riposare nella polvere di
un armadio i lugubri fantasmi del passato, soprattutto quelli della
Germania nazista e dell' Italia fascista. Ma le vecchie carte stavano per
esplodere, avevano bisogno d'aria e qualche anno dopo il crollo del Muro di
Berlino è saltato il lucchetto. Non so quanto conforto possa dare, ora,
il recupero dei fascicoli: apprendere che anche a Marzabotto
alcune SS parlavano un italiano perfetto: semplicemente perché «erano
italiani». Le vecchie carte informano inoltre che dei tre assassini di
Marzabotto individuati fino al 2003, «solo due sono ancora vivi:
Albert Piepenschneider, 78 anni, di Braunschweig, sergente, e
Franz Stockinger, 80 anni, di Mauth-Heinrichsbrunn». Sappiamo
anche che quella di Marzabotto «fu una carneficina
pianificata», come è stato confermato da due disertori SS, fatti
prigionieri dagli Alleati, e che il feldmaresciallo Albert Kesserling si
complimentò col comandante del reparto Panzer SS16, Walter Reder, per
quell'«operazione» d'alta strategia. Insomma, tutti contenti. I giorni
DEL MASSACRO LA RAPPRESAGLIA L'eccidio di Marzabotto fu
commesso dalle SS, sotto il comando del maggiore Walter Reder, già
responsabile delle stragi di Sant'Anna di Stazzema,
Valla, Fivizzano. Fu giustificato come «legittima» rappresaglia alle
azioni compiute dai partigiani I CIVILI Quello di Marzabotto
è stato il più grande massacro compiuto dai nazisti in Italia. Nel
paesino sull'Appennino bolognese, tra il 28 e il 30 settembre 1944 i
soldati tedeschi uccisero 770 civili. La strage colpì anche
altri paesi vicini I PAESI In tutto le vittime furono 1.836: oltre al
territorio di Marzabotto, le SS infierirono anche a
Grizzana e Vado di Monzuno. Tra i morti, anche 250 tra ragazzi e
bambini: quindici di loro avevano meno di un anno, la più
giovane era nata da 20 giorni I RESPONSABILI Il maggiore Walter Reder fu
catturato dagli americani in Baviera. Nel 1951 venne condannato all'
ergastolo dal tribunale militare di Bologna e incarcerato a
Gaeta. Nel 1985 ottenne la grazia. Morì a Vienna nel 1991, a 76 anni.
|