PAX CHRISTI

PUNTO PACE BOLOGNA 

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PIETRO                                               2/1/2008

Mosche bianche

Sono un ragazzo di 25 anni, nato e cresciuto nella periferia di Bologna; mi sono da poco laureato in sociologia e, per ora, lavoro come commesso in un centro commerciale e come coordinatore in una coop. sociale. Sono il primogenito di una bellissima famiglia composta dai miei genitori e da 2fratelli e una sorella più piccoli di me; nonostante la piccola casa e l’umiltà con cui i miei hanno sempre cercato di vivere, non sono mai mancati ospiti, e l’accoglienza incondizionata verso gli altri è sempre stato il valore cardine che ha segnato la nostra vita casalinga. Solo adesso mi rendo conto di quanto questo mi abbia sempre garantito una serenità di fondo che non è mai venuta a mancare, neanche nei momenti più critici della mia esistenza. Sono cresciuto, come tanti coetanei, sotto l’influenza dell’educazione cattolica che mi ha dato modo di essere sempre piuttosto attivo all’interno della mia parrocchia di appartenenza, luogo nel quale, oltre che essermi sempre sentito molto valorizzato e compreso, ho instaurato i rapporti d’amicizia più importanti e profondi della mia vita, che hanno contribuito a formare il mio carattere solare ed espansivo. In tutti gli anni che precedono la cosiddetta “scoperta di me” (mi riferisco al momento in cui ho deciso di vivere e manifestare la mia omosessualità, di cui ho sempre avuto consapevolezza), sono stato combattuto da diversi interrogativi in merito al significato della fede, interrogativi che forse sono comuni in tutti gli adolescenti che crescono in parrocchia: cosa significa credere? Chi è Gesù? Dov’è? E, soprattutto, cosa posso fare io per lui? E’ forse sufficiente per lui aderire a una serie di comportamenti retti, delineati dalla dottrina cattolica? E così via. Beh, l’imposizione di regole presentate come inconfutabili ha sempre generato in me una grande voglia di trasgredirle, e quindi non poteva essere certo solo questa la soluzione. Mi chiedevo come si potesse giungere a una fede matura, e mi domandavo se questa altro non fosse allora che l’approdo di un arduo percorso intellettuale che solo una cerchia ristretta di persone particolarmente dotate era in grado di compiere. Ma quando vedevo i sorrisi dei miei familiari e di alcune figure che sono state per me da esempio, e il loro modo di affrontare la vita, con gioia e spensieratezza, capivo che la grazia del Signore si era fatta carne ed era alla portata di tutti, e pur non riuscendo ad afferrarla mi tranquillizzavo e speravo che anche a me Dio avrebbe riservato lo stesso destino, rasserenato dalla sua compagnia. Avevo sempre percepito, però, che in me c’era qualcosa di diverso, qualcosa che comunque mi avrebbe di sicuro impedito di corrispondere a tale modello. L’attrazione che avevo sempre provato, sin da bambino, nei confronti dei miei coetanei maschi era infatti innegabile e non mi ha mai abbandonato. Neanche quando,dai 15 ai 20 anni, per riscattarmi dalla “sindrome del brutto anatroccolo” vissuta nella pre-adolescenza, mi sono dedicato all’ostentazione della mia virilità, intrattenendo rapporti sessuali e non con qualsiasi fanciulla si presentasse ben disposta. Il sentimento di apparente appagamento mi portò anche a pensare che avrei potuto sempre comportarmi così, senza pormi altre domande che allora non avevo la minima voglia di farmi. E tutto questo avvenne sotto gli occhi sempre attenti e spesso lucidi dei miei genitori, che avevano ben chiaro (dato che non mi preoccupavo affatto di nasconderglielo) come mi stessi buttando via. Eh già, nessuno può vivere così. Arrivò presto il momento in cui, totalmente svuotato dei pensieri positivi della mia infanzia, mi sentii insoddisfatto della mia vita, e provai un enorme senso di incompletezza. Quale peggior momento per sbottonare definitivamente il mio orientamento sessuale fino ad allora represso, salvo qualche squallido episodio. L’approccio col mondo omosessuale (intendo quello dei locali e delle associazioni) si sviluppò all’età di 20anni e, se da un lato mi diede modo di aumentare la conoscenza dei miei potenziali sentimenti, dall’altro mi fece cadere in un baratro esistenziale ancor più grande: la mia modalità di affrontare i rapporti era infatti sempre la medesima, pensavo fosse parte costituente della mia natura, forse anche per il riscontrare che all’interno di quei locali il 99% dei ragazzi viveva così le proprie relazioni. Mi confidai anche coi miei sulla mia condizione, ma chiaramente fu difficile per loro accettare che all’interno di quel mio modo di vivere da “dissoluto” vi fosse anche questo; inoltre in quel periodo non avevo il coraggio di ammettere, neanche a me stesso, di essere omosessuale, e mi definivo così “bisessuale”, dato che nei fatti non faceva differenza il sesso della persona con cui ero, purchè mi distogliesse dal riflettere sulla mia vera identità complessa. Naturalmente, mancandomi il coraggio di assumermi le mie responsabilità, continuavo a essere un catechista in parrocchia, rafforzato dal pensiero che comunque, qualsiasi cosa avessi fatto, per i dettami sarei stato un peccatore. Il momento di rottura con quella fase di “doppia vita” non tardò ad arrivare, e verso i 23 anni dovetti dare una svolta decisiva al mio comportamento. Vedere i volti delusi dei miei genitori e delle amiche più care era diventato insostenibile, e in più un incontro fondamentale aveva totalmente confuso i miei pensieri; un’amica, in una freddissima sera di gennaio, mi presentò il ragazzo con cui sto attualmente, che mi piacque fin da subito e mi fece venire davvero voglia di essere una persona migliore. Era bellissimo, semplice, puro e….tremendamente fidanzato! Mi piace pensarlo come un angelo inatteso che mi ha salvato dalla mia infelicità e mi ha dato modo di riscoprire il vero piacere della vita. L’approvazione di  mia madre per i miei sentimenti verso di lui, giunta dopo averla sottoposta alla lettura di qualche e-mail che ogni tanto noi due ci scrivevamo, fu decisiva, e segnò il momento in cui sia io che lei parallelamente cominciammo a valutare l’aspetto più significativo della mia condizione, ovvero la capacità di poter provare un sentimento d’amore autentico per un altro uomo. Ricordo con emozione il primo commento di mia madre su quel “noi” che ancora non esisteva: disse che due ragazzi come noi sono due “mosche bianche”. A prima vista questa definizione evidenzia una situazione di diversità, ma questa diversità può divenire davvero importante se con la sua testimonianza d’amore sa fare la differenza. Non ci vedemmo molto io e lui, all’incirca una volta ogni tre mesi, ma finalmente la luce era rientrata nella mia vita e, anche grazie a quell’incontro, poco a poco ho iniziato a sbrogliare tutti i nodi costituitisi nella mia difficile adolescenza. Ho imparato a stare da solo con me stesso, con la mia fragilità umana e con le mie incertezze, e ho capito che la paura di quello che sono (il che non si riduce al mio orientamento sessuale) aveva fatto sì che non affrontassi la realtà per tanti anni e che commettessi errori di cui sento ancora il peso. Ho riscoperto la gioia di lasciarsi amare per quello che ero dalle persone intorno a me e prima di tutti da Dio, il quale, ne sono convinto, lotta per la mia felicità, e muore ogni giorno e risorge anche per essa. Mi sono trovato poi, come tutte le persone che sono alla ricerca di sé stessi, nell’esigenza di trovare uno spazio in cui potermi esprimere con qualcuno che vivesse delle difficoltà simili alle mie, specialmente nel rapporto con la fede. E, brancolando alla ricerca di risposte, ancora una volta la provvidenza mi ha preso teneramente per mano e mi ha condotto sulla strada che mi ha portato a conoscere il gruppo di omosessuali credenti Incammino, nel quale ho subito ricevuto un’accoglienza incondizionata che mi ha permesso di riappropriarmi a pieno titolo della mia identità in linea con un cammino di fede onesto e sereno, che prosegue tutt’ora. Il clima quasi familiare dei nostri incontri mi sprona a confrontarmi costantemente con i miei limiti e con le mie virtù all’interno di un disegno che sembra essere fatto su misura per me, un disegno che comprende la mia timida fede e la mia condizione naturale, dalla quale, anzi, non può prescindere. L’ascolto della parola di Gesù, riscoperta in quel lungo periodo di apparente solitudine, ha trovato la sua collocazione in mezzo a persone che come me sognano un futuro dignitoso e pieno di quell’Amore senza il quale nessun uomo può stare. Inizialmente, il periodo di tempo che correva tra un incontro e l’altro sembrava eterno, e alla fine di esso mi sentivo come se mi mancasse il respiro, poi per fortuna, con cadenza mensile, tornava la domenica dell’incontro e riacquistavo le forze per affrontare il mese successivo. Dopo un anno e mezzo di lungo lavoro e attesa, a volte estenuante, il ragazzo incontrato in quella lontana sera d’inverno bolognese si è scoperto innamorato di me, e abbiamo intrapreso una fantastica relazione che ha donato al mio cammino un refrigerio ineguagliabile e un senso ancor più nobile. Con le difficoltà che ogni coppia incontra, procediamo mano per mano certi che il Signore, che si è dimostrato così misericordioso nel corso delle nostre vite facendoci toccare con mano il dono fatto carne del suo amore per noi, abbia in serbo per noi un progetto davvero unico. Ricordo ancora la prima volta in cui il mio compagno ha cenato a casa mia e ha conosciuto la mia famiglia, che l’ha subito accolto come un figlio riconoscendo pienamente l’entità della nostra relazione e vedendo probabilmente in lui la prova concreta che finalmente la vita del loro primogenito aveva preso una direzione chiara e definitiva. Il nostro amore ha trovato presto anche le porte aperte in tutti gli altri parenti (presenza molto forte nella mia famiglia), che dopo alcuni primi comprensibili tentennamenti, hanno preso anche a condividere con noi la gioia del nostro stare assieme nella sua specificità. I miei fratelli hanno accettato la sua presenza con affetto e con spontaneità, e da poco anche il più piccolino (10anni) è stato reso partecipe della nostra storia, che ha per ora compreso con la semplicità dei bambini, per i quali il bene e l’attaccamento alle persone sono più importanti di tutto il resto. La sua unica perplessità è stata infatti il non capire perché fosse stato l’ultimo a saperlo! Non ci sono parole per descrivere l’importanza e la bellezza di tali momenti. Ci tengo a sottolineare che la mia famiglia è di tradizione molto cattolica e credo che lo Spirito Santo abbia operato nei singoli componenti affinché superassero i propri preconcetti per vedere quel che c’è di buono in ognuno di noi, aldilà dell’apparente diversità delle nostre naturali inclinazioni. Non dico questo per gloriarmi di una situazione familiare probabilmente privilegiata rispetto alla media, ma per ribadire che tutto questo è possibile e soprattutto che l’adesione ad una dottrina che a volte ci giudica così severamente può invece essere il punto di partenza per poter accettare e amare gli altri, superando qualsiasi dettame che non ponga l’uomo,la persona concreta al primo posto. Col tempo, e sempre spronato e supportato dai miei premurosi genitori, sono riuscito a far conoscere la mia situazione anche nella mia comunità parrocchiale, unico luogo in cui ancora non riuscivo a sentirmi pienamente me stesso. Parlando pian piano coi miei sacerdoti e poi con gli altri parrocchiani, ho dovuto constatare la necessità di abbandonare il mandato di catechista, poiché coi tempi che corrono avrei incontrato difficoltà oggettivamente nocive per me e per i bambini che seguivo. Ripresomi dall’iniziale sofferenza per questa decisione ai miei occhi così ingiusta e per l’abbandono dei bambini che solo un anno fa ho accompagnato alla Prima Comunione, ho iniziato a interrogarmi su quale possa essere allora il mio ruolo nella realtà parrocchiale. Naturalmente la domanda non trova ancora una risposta certa, e forse mai la troverà, ma sono sicuro che se saprò ascoltare la voce di Dio Padre, avrò sempre un posto da occupare, in primis nella sua Chiesa. Per ora, dirigo il coro dei bambini per le messe di Pasqua e Natale, e non è poco considerando che ormai io e il mio compagno frequentiamo settimanalmente la mia parrocchia e che quindi bene o male tutti conoscono la natura del nostro legame. Preghiamo di poter essere un dono per la comunità di credenti che allo stesso modo lo è stato per noi. La nostra speranza è che col tempo sappiamo farci conoscere sempre più da vicino, affinché anche il nostro amore possa essere a servizio della comunità come possibilità di arricchimento reciproco e possa così far fruttare una fecondità peculiare del nostro modo di amarci.

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Bandiera della pace e abusi liturgici

L’abuso liturgico è ferita dalla bellezza della liturgia. E la bandiera della pace – secondo l’agenzia Fides- ferisce la bellezza delle nostre liturgie, per cui è < caldamente sconsigliata>  la sua presen­za in chiesa. Credo sinceramente, in realtà, che le nostre liturgie siano ferite da ben altre presenze o assenze.

Di fronte ai poveri, abuso liturgico sono le nostre chiese e i nostri paramenti liturgici sontuosi, preziosi, non quelli  storici e antichi da custodire ma quelli moderni che riempiono ancora oggi le vetrine di arte sacra per i quali siamo disposti sborsare migliaia di euro.

Di fronte alle vittime delle guerre, abuso liturgico sono le nostre continue benedizioni agli eserciti, i nostri silenzi di fronte alla  corsa al riarmo, le nostre connivenze con le banche armate pur­chè ci assicurino qualche contributo per il tetto  della chiesa o i fiori sull'altare.

Di fronte agli umili e ai miti, abuso liturgico sono le intoccabili preghiere dei corpi militari frequentemente declamate dai nostri amboni e inneggianti alla vittoria alla distruzione dei nemici e alla salvezza raggiunta con le armi, così come le "bandiere di guerra" innalzate al momento della consacrazione.

Di fronte ai semplici, abuso liturgico sono i nostri linguaggi, gesti, simboli incapaci di dire la buona novella, il bizan­tinismo di molte nostre processioni, l'esal­tazione di una religiosità legata ai santi e alle madonne più che a Cristo, affare più che fede, le celebrazioni sempre più centrate sul presidente presbitero (meglio se vescovo o cardinale e con inse­gne) e sempre più incapaci di dare spazio alle comunità dei fedeli.

Di fronte alle donne, abuso liturgico è chiedere  loro di pulire chiese o spolvera­re i confessionali e scandalizzarci di fronte alla ministerialità  più ampia.

 Di fronte a chi ha sbagliato o fallito, abuso liturgico è un’assemblea imbarazzata e ingessa­ta, capace di giudicare e assolutamente incapace di accogliere e dare dignità.

Di fronte a chi non crede o a chi vive il dubbio della fede, abuso liturgico sono le nostre assemblee tristi, più incredulo spettacolo che inno gioioso per la libera­zione dalla morte e dal peccato.

Lo bellezza della liturgia è attuare, come popolo sacerdotale (non come classe sacerdotale), l'opera di salvezza in Gesù Cristo, offrendo sacrifici "spirituali" e annunciando quanto Dio ho fatto per il suo popolo. La bellezza dello liturgia non contempla quindi la definizione di confini e appartenenze ma solo la meraviglia della salvezza, la gioia dello risurrezione e la grazia dello Spirito Santo.

Buttiamo pure fuori dalla chiesa la "diabolica" bandiera della pace. È tutto sommato facile e ci fa sentire forti e sicuri di noi stessi, non di Cristo. Il problema è che con la stessa facilità, sicurezza e protervia noi cacciamo fuori dalle nostre liturgie i pove­ri, i miti, le vittime, gli umili, le donne, i diversi, i peccatori, i dubbiosi, gli increduli.

Di questo ci scandalizziamo meno. Reste­remo noi, con i nostri vessilli, le nostre ragioni, i nostri divieti e Gesù sarà fuori, celebrando la liturgia più bella con il suo popolo che cerca vita, desidera riconcilia­zione, gioisce per lo fiducia ricevuta.

Don Fabio Corazziona di Pax Christi

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Da Rivista di Teologia Morale  Numero 157 del 2008
Di  LUIGI LORENZETTI
Luigi Lorenzetti, docente di etica teologica allo Studio teologico S. Antonio di Bologna e all'Istituto superiore di scienze religiose di Trento; direttore della Rivista di Teologia Morale

Primo Mazzolari: la morale della guerra ingiusta e della pace giusta

In riferimento al Vangelo, le quattro grandi tesi

Mazzolari,* rispetto ai teologi del suo tempo, si differenzia per l'esplicito e continuo riferimento al Vangelo, vale a dire alla parola di Dio che ha raggiunto la definitiva rivelazione e compimento in Gesù di Nazareth, crocifisso e risorto. La sua tesi è lapidaria: il Vangelo non è assolutamente spendibile per legittimare la guerra. Che questo sia accaduto, che il Vangelo, cioè, sia stato usato per legittimare la guerra, è una grave colpa dei teologi. Al contrario, è spendibile solo per costruire la pace. In questa prospettiva, le affermazioni di Mazzolari trovano unità attorno a quattro grandi tesi fondamentali.

La teoria della guerra giusta non è cristiana

Tale teoria è venuta da fuori della cultura cristiana, precisamente dalla cultura greco-romana. La cultura cristiana, anziché condizionare, si è lasciata (e si lascia tuttora) condizionare. In un altro passaggio, volgendo lo sguardo alla storia, osserva amaramente: «Da quando i cristiani si sono messi a ragionare sulla pace, a porre delle condizioni ragionevoli alla pace, a mettere davanti le loro giustizie, non ci siamo più capiti, neanche in cristianità, ed è stata la guerra […]. La ragione va con tutti, e finirà di stare con il lupo, non con la pecora, la sola che avrebbe veramente ragione, se non invidiasse il lupo e non cercasse di superarlo».

La guerra non è soltanto una calamità, ma un peccato

«La guerra non è soltanto una calamità, ma un peccato», trasgressione della legge di Dio. Al contrario, osserva che «molti invece di considerare la guerra un crimine, poiché facendo la guerra si uccide, la tengono come una disgrazia, per il fatto che in guerra si può essere uccisi».
In base al comandamento di Dio, Mazzolari valuta la guerra nei suoi drammatici risvolti a riguardo della vita umana e la qualifica come omicidio, suicidio e deicidio. Un giudizio teologico così forte non è mai stato (né potrebbe essere) formulato.
A quanti parlano di eccezioni al comandamento Non uccidere, Mazzolari risponde, osservando che la Chiesa non riconosce eccezione alcuna alla legge dell'indissolubilità matrimoniale, ed è questa _ egli dice _ «un'intransigenza traboccante di saggezza e di umanità». Perché allora ci dovrebbero essere delle eccezioni a riguardo del quinto comandamento? D'altra parte, la difesa legittima non è affatto un'eccezione al comandamento di Dio, ma la legittima difesa non equivale a legittimare la guerra, semplicemente per il fatto che in guerra si va per uccidere, e perché la guerra moderna inevitabilmente non rispetta il modo proporzionato e si converte in abuso di difesa.

La cultura della nonviolenza si radica sul Calvario

Sul calvario non c'è Uno che si arrende all'ingiustizia, all'odio, c'è invece Uno che fa giustizia, vince il male in modo diverso e introduce un modo diverso del fare giustizia. Nel testo si possono leggere quattro passaggi di una insuperabile densità teologica e spirituale che riportano il tema della pace al suo vero luogo, al cuore della cristologia: Gesù Cristo, crocifisso e risorto; e, quindi, al comandamento dell'amore e della nonviolenza, quale fondamento sia dell'etica privata sia pubblica. Soltanto in questa prospettiva è possibile elaborare una concezione cristiana della pace che non sia riducibile a una cultura o politica tra le tante, così che sia capace di entrare in dialogo critico-profetico con ogni cultura e politica di pace.

Dal Vangelo, il vero realismo politico

Mazzolari ricostruisce il ragionamento dei cosiddetti realisti, anzi in qualche modo lascia loro la parola: «Queste idee sono belle: vengono dal vangelo; però la realtà è un'altra; il concreto è diverso. Un conto la teoria, un conto la realtà. La pace e, quindi, anche il Vangelo è l'utopia, la guerra è la concretezza. Cioè il Vangelo è riservato agli idealisti e agli acchiappanuvole; la realtà non corrisponderà mai al Vangelo. Il realismo guarda al Vangelo come a un intralcio. Questi testi stanno bene in Chiesa, ma la banca, il commercio, l'industria, la guerra, ma la politica è un'altra cosa».
A loro risponde appellandosi alla storia e al suo futuro: «È pericoloso e soprattutto scomodo il Vangelo, ma andiamoci piano a opporre realismo e Vangelo. Solo la sua eroica applicazione può salvare il mondo, se no il mondo continua a uccidersi fino a che il pianeta diventi un locale disabitato». In altre parole, il vero realismo lo si impara proprio dal Vangelo.

Attualità del pensiero di Mazzolari

La contrarietà alla guerra, a ogni guerra, è fondata, in Mazzolari, su un duplice tipo di argomentazione. Uno è di ordine storico-razionale: la guerra moderna non è paragonabile alle guerre antiche, è un'altra realtà. Conseguentemente, a differenza dei teologi moralisti del suo tempo, Mazzolari avverte che la teoria tradizionale è superata dalla realtà. D'altra parte, la difesa è legittima e doverosa, illegittima è la modalità guerra che è inservibile per qualsiasi causa giusta, che va intrapresa con altra modalità. L'altro è propriamente teologico: la guerra è un crimine, un peccato, perché si uccide, e non semplicemente una disgrazia o una calamità, perché si rischia di rimanere uccisi.

Il confronto con il concilio Vaticano II

L'attualità del pensiero si misura nel confronto con il concilio Vaticano II (1965), su due punti essenziali che Mazzolari, unitamente a pochi altri pensatori e teologi, ha anticipati e preparati.
Il primo riguarda l'abbandono della teoria tradizionale della guerra giusta. Il concilio Vaticano II deliberatamente non ne parla, perché divenuta ambigua e funzionale a ogni politica di guerra. Inoltre, la guerra moderna _ per il suo altissimo e indiscriminato potenziale distruttivo _ ha cambiato, per così dire, natura. In altre parole, qualunque cosa sia stato detto in passato sulla guerra, non vale per la guerra moderna.
Il secondo riguarda il ricorso alla forza delle armi (che non è, però, sinonimo di guerra) solo in caso di difesa da un'aggressione in atto, dopo che ogni altra via di composizione della controversia è fallita. Il concilio Vaticano II avverte, però, che la difesa non può attuarsi mai con le armi scientifiche (la condanna è totale), ma nemmeno con le armi convenzionali che provocano distruzioni di persone, gruppi umani e di territori. In altre parole, il principio della legittima difesa è così circoscritto da diventare inapplicabile nella prassi, perché la difesa, mediante la guerra moderna, si trasforma di fatto in abuso di difesa. In conclusione, è sempre più vera e verificabile l'avvertimento storico ed evangelico di Giovanni XXIII: «È assurdo (alienum est a ratione) pensare che la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia».

Il ricorso alla forza delle armi non è sinonimo di guerra

D'altra parte, il ricorso alla forza delle armi (che non è sinonimo di ricorso alla guerra), purtroppo, non può essere escluso in assoluto, pena il soccombere o il lasciare soccombere i popoli all'aggressione e alla violenza. Nella prospettiva della difesa della propria nazione o di quella altrui, si è affermato, in questi ultimi decenni, nel diritto internazionale e anche nella dottrina cattolica, il concetto di ingerenza o intervento umanitario. In questo contesto di solidarietà globale è previsto, quando ogni altra via è fallita, l'eventuale ricorso alle armi (azione di polizia internazionale) che, tuttavia, si distingue nettamente dalla guerra non solo per i fini e le motivazioni ma anche per le modalità di realizzazione, in quanto è circoscritto negli obiettivi e resta finalizzato a disarmare l'aggressore, impedendo il verificarsi dei cosiddetti rischi collaterali. Questa posizione rappresenta il punto più estremo, in tema di uso della forza militare, nel pensiero cattolico ufficiale.

La situazione attuale

La situazione attuale è paradossale: da un lato, la coscienza collettiva ha maturato una contrarietà alla guerra, come mai era accaduto in altro periodo della storia; dall'altro, ritorna una politica che considera la guerra uno strumento normale per fare giustizia; a parole è l'estremo rimedio, in realtà è il primo e il più preparato. Dopo l'attacco terroristico dell'11 settembre 2001, ritorna una politica che qualifica la guerra, di volta in volta, giusta, necessaria, inevitabile, asimmetrica, intelligente e, da ultimo, addirittura preventiva.
La lotta al terrorismo è indiscutibile. Discutibili sono, invece, il metodo e gli strumenti. Il nuovo terrorismo non ha stati, si sposta da uno stato all'altro. Entro tale preoccupante scenario, si comprende come la guerra sia uno strumento del tutto inservibile oltre che ingiusto, in quanto si basa sull'infondata identificazione tra associazione terroristica e popolo (o nazione). La lotta al terrorismo esige l'impegno delle istituzioni internazionali; la cooperazione tra intelligence e forze di polizia; il dialogo e la promozione della giustizia sociale nazionale e internazionale.

Il ruolo della teologia morale

Certamente non si avrà mai un'identificazione tra morale e politica, ma va accentuata l'esigenza di un dover essere che contrasta la prassi. Il migliore servizio che la morale può e deve rendere alla politica di guerra è una seria e motivata argomentazione di contrasto, in nome della ragione e della fede. Quello che la teologia morale deve fare è, in negativo, non prestarsi a fungere da cappellana (funzionale e strumentale) della politica di guerra e, in positivo, può e deve insegnare che le cause giuste si difendono in modo giusto (e la guerra non lo è); che non è lecito farsi giustizia da sé, in considerazione degli organismi internazionali (a cominciare dall'Onu); che è necessario prevenire e rimuovere le cause dei conflitti e delle controversie tra i popoli e gli stati. La storia umana, già adesso nelle sue forze migliori e più sane, va verso questo traguardo di civiltà e di umanizzazione. La teologia morale, in quanto disciplina teologica, deve promuovere e favorire e non già ritardare il raggiungimento di questo traguardo di civiltà.

La Chiesa non può tacere

È importante concludere con Mazzolari, dove parla della Chiesa cha ha il compito e la missione di annunciare il Vangelo di pace.
«La Chiesa custodisce il Vangelo di pace e lo semina ovunque, senza chiedersi dove e come e se nascerà, poiché la sua missione non è di capire, molto meno di far trionfare la Parola, che ella deve solo custodire e seminare. Chi onestamente considera l'impegno della Chiesa, invece di farle colpa se il mondo non è ancora un mondo pacifico, si meraviglia come il mondo non sia ancora riuscito a chiuderle la bocca e a inchiodare le mani dell'instancabile seminatrice, e si sia limitato finora, dentro e fuori la cristianità, a congegnare ragionevoli scuse e dotte favole per dimostrare che conviene rimandare a tempi più maturi il comandamento della pace. Il quale è ancora in mora per non recare nocumento a quei brevi e piccoli interessi che sembrano più importanti della pace. La pace cristiana è ancora una pace crocifissa: e le ragioni che si adducono per tenerla inchiodata sono altrettanto valide di quelle tirate fuori nel sinedrio e nel pretorio per inchiodare il Pacifico».


* Luigi Lorenzetti, docente di etica teologica allo Studio teologico S. Antonio di Bologna e all'Istituto superiore di scienze religiose di Trento; direttore della Rivista di Teologia Morale.

Mazzolari P., Tu non uccidere, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1991, 29: «Dove vale il Vangelo, regna la pace negli individui e nelle nazioni; dove si scatena la guerra, il Vangelo è violato, anche se teologi pavidi o ingenui o prezzolati abbiano sfigurato talora le parole di Cristo per legittimare il carnaio».

Ibid., 36: «La cristianità si è inserita nell'olivastro della saggezza pagana di Atene e di Roma […].Talvolta il limite della saggezza umana antica è stato superato, più che in nome dei comandamenti, in nome dei consigli evangelici che paiono meno impegnativi se non proprio un di più […]. La pace è ancora nelle strettoie della concezione umana antica, che ne ritarda la germinazione e la crescita evangelica, in nome della giustizia».

Ibid., 31-32.

Ibid., 25.

Ibid., 31.

Ibid., 28: «Dio ha comandato: "Tu non uccidere" (e tu non uccidere, per quanto si arzigogoli sopra, vuol dire "Tu non uccidere"); e per di più si uccidono fratelli, figli di Dio, redenti dal sangue di Cristo; sì che l'uccisione dell'uomo è a un tempo omicidio, perché uccide l'uomo; suicidio, perché svena quel corpo sociale, se non pure quel corpo mistico, di cui l'uccisore stesso è parte; è deicidio, perché uccide con una sorta di esecuzione di effigie l'immagine e la somiglianza d Dio, l'equivalenza del sangue di Cristo, la partecipazione, per la grazia, della divinità».

Ibid., 60: «La Chiesa, per citare un fatto che tutti conoscono e che molti mal sopportano, non ammette neppure un'eccezione all'indissolubilità matrimoniale. Ecco un'intransigenza traboccante di saggezza e di umanità. "Ma questo tuo parlare, Signore, è duro.."…"Volete andarvene anche voi? ».

.Il principio di legittima difesa non rappresenta un'eccezione al comandamento non uccidere. La difesa, infatti, si propone direttamente (e come voluta) la difesa e solo indirettamente (e come non voluta) l'eventuale uccisione. Cosa impossibile nel fatto guerra che si propone direttamente l'uccisione.

Ibid., 43-45: «Sul Calvario viene raggiunta la perfetta somiglianza tra il Figlio dell'Uomo e il Figlio di Dio, perché Cristo ha rinunciato a difendersi contro l'uomo, senza rinunciare a testimoniare per la verità e per la giustizia».[…].

«L'uomo visto dall'alto della Croce, non è la massa, non il russo, non l'americano, non l'ebreo, non il borghese, non il proletario, non il comunista, non il prete… ma l'uomo, quella povera creatura che prima di essere colui che ci fa morire, è colui per il quale moriamo […].

«La nostra religione è fondata sull'insostituibile valore del sacrificio, cha ha il suo vertice sul Calvario e si ricapitola nella Croce. Come può un cristiano, la cui via regia è la croce, rinunciare alla croce?

«Chi accetta la necessità della guerra, si schioda dalla croce non potendone sopportare l'impotenza del fare giustizia. "Se sei il figlio di Dio, scendi dalla croce…».

Ibid., 53-54.

F. Pasetto, Pacifismo profetico e pacifismo politico. Note per una teologia cristiana della pace, EDB, Bologna 2002, 187. «La grande innovazione nel modo di guerreggiare è fatta risalire, da Francesco Guicciardini, al periodo compreso tra la fine del secolo XV e l'inizio del secolo XVI, ed è ricondotta a un fattore tecnico. Fu effettivamente l'invenzione della polvere da sparo e, soprattutto, del suo uso propellente a mettere in liquidazione le armi bianche, sostituite un po' alla volta dalle armi da fuoco, ossia dall'archibugio e dalla bombarda».

Si può andare ancora più indietro nel tempo e constatare un passaggio che non è sfuggito al concilio Laterano II (1139): il passaggio, cioè, dalle armi bianche (spade) alle frecce. Così quel concilio proibiva, sotto pena di scomunica, l'uso delle frecce tra cristiani. «Proibiamo, sotto pena di scomunica, che venga esercitata d'ora in poi contro cristiani e cattolici l'arte mortale e odiosa a Dio dei balestrieri e degli arcieri» (Cf. Concilio lateranense II, can. 29, in Conciliorum oecumenicorum decreta, EDB, Bologna 1901.

Il concilio Laterano aveva registrato un salto di qualità nel passaggio dalla spada alla freccia. Chissà cosa avrebbe dovuto dire a proposito delle armi moderne, e non solo di quelle scientifiche (atomiche, chimiche, batteriologiche), ma anche di quelle convenzionali.

GS 80 : «Occorre considerare la guerra moderna con mentalità completamente nuova».

Cf. GS 79.

Cf. GS 80: «Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città, o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato».

PT 127.

EV 27: «Tra i segni di speranza va pure annoverata la crescita, in molti strati dell'opinione pubblica, di una nuova sensibilità sempre più contraria alla guerra come strumento di soluzione dei conflitti tra i popoli e sempre più orientata alla ricerca di strumenti efficaci ma "non violenti" per bloccare l'aggressore armato».

Ibid., 30-31

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Antiochia, 6 febbraio 2005

 E’ domenica. Ho appena terminato l’ora di catechismo con i 12 bambini della nostra parrocchia qui ad Antiochia, nel sud della Turchia .

P. Domenico mi blocca in giardino.

“Ha appena telefonato il Vescovo. Hanno sparato a don Andrea neanche un’ora fa. Morto sul colpo”.

Don Andrea Santoro, il parroco di Trabzon. Non ci posso credere.

Di lui mi ha sempre colpito la tenacia e la serietà.

Figura alta e asciutta, compita, sessantenne dal volto scarno e segnato da precoci rughe, essenziale nel vestire e nel parlare. Incontri rapidi, fugaci, i nostri. Ma sempre intensi e con al centro Dio, la sua Parola, il suo Verbo, Gesù Cristo, senza mezzi termini.

Mi raccontano che già nel 1993 era venuto in visita in Turchia e qui ad Antiochia si era fermato una ventina di giorni: era il suo primo pellegrinaggio in questa che lui definiva la “grande terra santa dove Dio ha deciso di comunicarsi in maniera speciale all’uomo”. E proprio nella città dove per la prima volta i discepoli di Gesù furono chiamati cristiani ci tenne a svolgere gli esercizi spirituali in solitudine.

Volle incontrarsi anche con l’abuna ortodosso della città ed egli, quasi segno promonitore, cogliendo in lui la passione per i cristiani di questa terra di Turchia, gli regalò un piccolo frammento di ferro gelosamente custodito nel basamento del tabernacolo dell’antica chiesa greco-ortodossa di Antiochia. Frammento che la tradizione vuole essere stata una scheggia di uno dei chiodi di Gesù. Era il 30 novembre, festa di sant’Andrea e il sacerdote, onorato di tale prezioso dono nel giorno del suo onomastico, lo portò con sé di ritorno a Roma.

Fu come un chiodo che rimase nella sua carne.

Da subito il fascino per questa terra lo ammaliò, in essa riconobbe “le sue ricchezze e la sua capacità –grazie alla luce che Dio vi ha immesso da sempre – di illuminare il nostro mondo occidentale. Ma – diceva – il Medio Oriente ha le sue oscurità, i suoi problemi spesso tragici, i suoi vuoti. Ha bisogno quindi a sua volta che quel Vangelo che di lì è partito vi sia di nuovo riseminato e quella presenza che Cristo vi realizzò vi sia di nuovo proposta”.

Da allora con insistenza aveva chiesto di poter venire quaggiù come fidei donum.

E io lo conobbi ad Istanbul, alla fine del 2001 mentre insieme ci cimentavamo nello studio del turco.

Vent’anni più grande di me, lo studio per lui fu veramente faticoso, ma non mollava: era troppo importante per lui l’uso della lingua locale per poter comunicare direttamente con la gente ed entrare in sintonia con loro.

Diceva: “Il turco è una lingua molto difficile e io sono l’ultimo della classe. Non so come andrà a finire, ma “essere l’ultimo” è comunque utile: aiuta a sentirsi davvero ultimi, con un’umiltà reale e quotidiana”. Anche a distanza di tempo ammetteva: “La lingua continua ad essere un’esperienza di povertà: dover sempre imparare, poter dire solo un’infinitesima parte di quello che si vorrebbe dire, riparare i malintesi dovuti proprio alla lingua e subito risanarli, oltre che con le dovute scuse, anche con squisiti cioccolatini italiani”, confessava con la suo sorriso ironico. E poi proseguiva: “Nel preparare le mie omelie ho scoperto che la povertà della lingua mi spinge all’essenzialità, la sua novità mi fa cogliere meglio la novità del Vangelo, la diversità degli uditori (quasi tutti ex musulmani) mi costringe ad andare al cuore dell’annuncio e me ne mostra le insospettabili ricchezze”.

Volle andare ad Urfa, nel sud est della Turchia, ai confini con la Siria, dove vi rimase tre anni come presenza orante e silenziosa, in quella città – patria di Abramo – dove non si conta neppure un cristiano. Eppure anche lì era riuscito a farsi benvolere da tutti, persino dall’imam della moschea vicina.

E così motivava il senso della sua presenza lì: “Urfa (con Harran, il villaggio di Abramo a circa 45 chilometri dalla città) è per me sempre l’eco delle parole dette da Dio ad Abramo: “Lascia la tua terra, la tua patria, la casa di tuo padre verso una terra che ti indicherò… io ti benedirò e tu sarai una benedizione per tutti i popoli della terra”. Urfa – ci diceva – è la “partenza” di  ogni giorno. Urfa è Dio che con una intelligenza, un potere e un amore più grande del nostro ha i suoi disegni su di noi e ci chiede disponibilità. Urfa è la potenza di una benedizione, di una gioia e di una fecondità senza fine, di cui Dio si rende garante. Urfa rimane la radice e la bussola del nostro muoverci in Turchia e in Medio Oriente”.

E continuerà a portarsi nel cuore questa città, anche quando gli sarà chiesto di spostarsi al nord, sul mar Nero, a Trabzon, per essere parroco della Chiesa di santa Maria (fondata da tempi antichi dai cappuccini), rimasta “sprovvista” di un prete da più di tre anni.

Duecentomila abitanti, molte mosche, una chiesa, una piccola comunità cattolica di circa 15 persone, una più folta comunità ortodossa sparsa per la città, un’emigrazione femminile dall’Est dell’Europa, preda spesso della prostituzione e dello sfruttamento, un fiume di giovani musulmani che visitano la chiesa. “Qui c’è un mondo caro a Dio”, scriveva don Andrea appena approdato a Trabzon, sulla sua “Finestra per il Medio Oriente” lettera di collegamento (che poi è diventata anche un sito) da lui fondata “per raccogliere da questa terra le grandi ricchezze che Dio vi ha deposto e per spedire da lì a qui le ricchezze che Dio ha fatto maturare nei secoli. Un vero e proprio scambio di doni umani, spirituali, culturali e religiosi che possono arricchire entrambi e contrastare quello scambio di odio, di minacce e di guerra che troppo spesso è all’orizzonte”. Questo il suo obiettivo da sempre: “Aprire una finestra che permettesse uno scambio di doni tra la chiesa cristiana occidentale e quella orientale, riscoprire il flusso di linfa che unisce la radice ebraica e il tronco cristiano, incoraggiare un dialogo sincero e rispettoso tra il patrimonio cristiano e il patrimonio musulmano, una testimonianza del proprio vivere e sentire. Attraverso anzitutto la preghiera, l'approfondimento delle Sacre Scritture, l'Eucarestia, la fraternità, l'amicizia fatta di ascolto, di accoglienza, di dialogo, di semplicità, la testimonianza sincera del proprio credere e del proprio vivere”.

Ormai la distanza geografica tra noi si era fatta notevole – più di mille chilometri tra l’estremo nord dove si trovava lui e l’estremo sud della  Turchia dove mi trovo io – eppure, appena poteva, continuava a partecipare ai ritiri mensili organizzati dal Vicariato dell’Anatolia per noi, sparuto gruppetto di religiosi, religiose e laici impegnati, sparpagliati in tutta l’Anatolia, a servizio della Chiesa locale.

Il Natale di due anni fa cominciò a confidarci la sua preoccupazione per le prostitute e il suo desiderio di fare qualcosa per loro a Trabzon. “La prima volta che passai davanti ad un locale dove conosciamo bene le ragazze (quasi tutte cristiane dell’Armenia) ci invitarono ad entrare e a prendere un tè. Con me c’era suor Maria con la croce al collo. Dico che è una monaca. Si parla dei loro figli, dei monasteri che ci sono da loro, della vita difficile nella loro terra… una di loro è pediatra. Qualche giorno dopo, sempre pregando, passeggiamo nella via principale dello stesso quartiere. Una signora che invitava i suoi clienti da un vicolo laterale vede la croce al collo di suor Maria e sbracciandosi ci viene incontro. Bacia la croce e la mano della suora, si fa il segno della croce e l’abbraccia, chiedendole se ha bisogno di qualcosa. Il protettore si avvicina un po’ infastidito, gli dico che la donna è cristiana e che anche noi lo siamo. I locali sono pieni di donne, spesso giovanissime. Che fare? Lo chiedo ogni giorno al Signore: che ci apra una porta, chiami qualcuna di esse a cambiare vita e ad aiutare le altre, tocchi il cuore di qualche protettore, mandi qualcun altro a collaborare con noi”.

Ho saputo dal nostro Vescovo, mons. Padovese, che tempo addietro don Andrea è stato persino in Georgia per prendere contatti con la Chiesa locale in aiuto a queste donne. Una pista d’indagini sul suo omicidio  sospetta che il delitto sia legato alla mafia implicata nel traffico di prostitute cristiane provenienti da paesi dell'ex Unione Sovietica.

Un’altra pista, invece, punta sulla provocazione politico-religiosa, sostenendo che l’intento degli istigatori del delitto è stato quello di provocare un conflitto tra la religione islamica e quella cristiana, conflitto attualmente immotivato e inesistente in Turchia, ma esasperato un po’ in tutti gli stati islamici in seguito alle vignette blasfeme pubblicate in Danimarca

Eppure, penso, una persona più innocua e mansueta di don Andrea, dove trovarla?

Ricordo ancora chiaramente le sue parole l’ultima volta – due mesi fa - che l’ho visto ad Iskenderun, nella sede del Vicariato Apotolico dell’Anatolia.

Durante il nostro ritiro mensile si parlava di Croce e lui non esitava a dire: “Spesso mi chiedo perché sono qui e allora mi viene in mente la frase di Giovanni Battista: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Sono qui per abitare in mezzo a questa gente e permettere a Gesù di farlo prestandogli la mia carne. In Medio Oriente Satana si accanisce per distruggere con la memoria delle origini la fedeltà ad esse. Il Medio Oriente deve essere riabitato come fu abitato ieri da Gesù: con lunghi silenzi, con umiltà e semplicità di vita, con opere di fede, con miracoli di carità, con la limpidezza inerme della testimonianza, con il dono consapevole della vita".

Poi fece una lunga pausa. Si tolse gli occhiali a mezza luna tenuti sulla punta del naso, lasciandoli penzolare al collo e con ancor più serietà e pacatezza continuò parlando quasi tra sé: “Mi convinco alla fine che non si hanno due vie: c’è solo quella che porta alla luce passando per il buio, che porta alla vita facendo assaporare l’amaro della morte. Si diventa capaci di salvezza solo offrendo la propria carne. Il male del mondo va portato e il dolore va condiviso, assorbendolo nella propria carne fino in fondo come ha fatto Gesù”.

Scese il silenzio nella sala.

Non una parola di più, non una di meno. Poi guardò l’orologio. Si alzò di scatto, si scusò e prendendo la sua piccola valigia uscì di corsa dalla stanza. Non voleva rischiare di perdere l’aereo per tornare il più in fretta possibile nella “sua Trabzon”.

Era inginocchiato a pregare in chiesa quando ieri un proiettile l’ha colpito dritto al cuore.

La sua carne è stata trafitta e l’odio è stato assorbito fino in fondo da un amore inerme e orante.

Mariagrazia Zambon

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Antiochia, 5 marzo 2005

 UN PICCOLO FRUTTO DEL MARTIRIO DI DON ANDREA

 Alto, magro, stempiato, rigorosamente in giacca e cravatta. Da un mese Mehmet è l’ombra silenziosa e discreta di p. Domenico Bertogli, cappuccino modenese, parroco di Antiochia - nel sud della Turchia - da 18 anni.

E sì, da quando, subito dopo l’omicidio di don Andrea Santoro a Trabzon, dal Ministro della Sicurezza turco è arrivato l’ordine di proteggere tutti i sacerdoti e religiosi presenti in Turchia, Mehmet, come un angelo custode, segue con occhio attento e vigile ogni spostamento del frate.

Vanno insieme al mercato e alla posta, ma anche al cimitero, a far visita agli ammalati, agli incontri di preghiera nelle famiglie e nella chiesa ortodossa. A poco a poco ha imparato a conoscere la persona che deve proteggere, le sue abitudini, il suo stile di vita e, senza imbarazzo, si è inserito nei ritmi quotidiani di questo prete cattolico italiano, dando sicurezza e fiducia.

E quando p. Domenico è nel suo studio a scrivere, leggere, pregare o riposare, Mehmet aspetta paziente, sfoglia il giornale, sorveglia il giardino interno della chiesa, si beve una fresca spremuta d’arancia e di pompelmo.

Questo è il momento più bello per le confidenze.

Quarantaseienne, sposato con due figli, una ragazzina quattordicenne e un maschietto che ha appena cominciato le elementari, iscrittosi da giovane nella polizia è da più di un ventennio che – poliziotto in borghese specializzato – fa la guardia del corpo a disposizione del Prefetto della città.

E ora, lui, musulmano praticante, ligio alla legge del Corano, che non aveva mai messo piede in una chiesa né tanto meno aveva mai avuto nulla a che fare con i cristiani – confessa di non averne mai conosciuto uno – dal 5 febbraio è incaricato di sorvegliare la piccola chiesa cattolica di Antiochia, i suoi membri e in particolare la guida della comunità.

Lui, che ha la moglie di Trabzon (che strana coincidenza?!) rigorosamente velata; lui, che sveglia tutti i giorni sua figlia all’alba perché – ormai adolescente – prima di andare al liceo preghi con i suoi genitori al richiamo del muezzin; lui, che tiene il digiuno nei giorni prescritti dal sacro Libro, si ritrova ora a recitare il suo rosario (con i 99 nomi di Allah) andando avanti e indietro nel cortile della parrocchia mentre dall’interno della casa-chiesa provengono i canti della Messa.

E alla fine della celebrazione ci ritroviamo tutti insieme a bere un tè caldo, ridendo e scherzando. Con grande naturalezza si commentano i fatti del giorno e si parla di personaggi famosi che tutti conoscono…

Ha preso in simpatia la nostra gente, il nostro modo di fare disponibile, accogliente, aperto. Timidamente ha chiesto di poter far venire la figlia a vedere, a parlare, a confrontarsi sul cristianesimo e poi ha cominciato a portare anche il figlio. Ora il piccolo Alì ogni domenica viene a giocare con i nostri bambini di catechismo, suoi coetanei.

La moglie è ancora titubante, confessa di aver paura che – essendo di Trabzon – possa essere non benvoluta da noi, visto quanto è accaduto contro un prete cattolico nella sua città d’origine. Ma lui, Mehmet, le ha detto che non ha nulla da temere, siamo brava gente, pacifica, “non faremmo mai del male neanche ad una mosca”.

E’ lei ancora a chiedere al marito cosa farebbe in caso di un attacco alla chiesa, di una sparatoria a p. Domenico.

“Lo difenderei fino a dare la mia vita per lui. Per questo uomo di Dio”.

E ce lo racconta con un’ovvia tranquillità che lascia sbalorditi.

Grazie a Dio ci sono anche musulmani così in Turchia.

Senza il martirio di don Andrea non lo avremmo mai potuto conoscere…

Mariagrazia

 

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Don Tullio Contiero Lettera dall’Africa

Tosomaganga 10-9-72

Carissimo medico,
ti saluto dal terzo mondo. Scrivo dall’interno della Tanzania, a mille chilometri da Nairobi e a quattrocento miglia da Dar es salaam.
Tramonta il sole sulla savana e presto gli animali per la foresta verranno a cercare ristoro. Psicologicamente e’ un momento che l’animo vuole pace e preghiera, dato che al bello, e alla trascendenza aneliamo come il corpo cerca acqua in questa arsura (non piove da mesi) tra i polveroni rossi di questa terra, mentre la fame sbatte i fianchi fiacchi. L’Africa ti fa capire la fame di pane e la fame di Dio: ambedue sono doni e segni della Provvidenza per inseguire il futuro nella necessità del vivere. Vivere e aspirare all’immanente: e’ la lotta di ogni attimo. E in questi momenti di eterno ti scrivo la presente. L’esperienza della messa celebrata un’ora fa tra gli ammalati e il silenzio dell’ospedale mi piegano a positive riflessioni. Durante il rito, una piccola immagine raffigurante un lebbroso morente con la parola di speranza “risorgerò“, posta di fronte al suo volto mi ha agitato nel subcosciente religioso pensieri di forza. Mentre distribuivo la comunione e porgevo l’ostia a una mamma che teneva il bambino nudo legato alla schiena mi cascò per terra la particola. Quel Dio perso tra la polvere ai piedi di quegli ammalati mi ha dato tutta la intuizione della bontà di Cristo nostro fratello accumunato con l’umanità piu’ diseredata, terribilmente emarginata. L’umiltà del Signore mi ha rivelato Isaia e tutto il profetismo del servo di Iave’. Penso che nessuna sociologia e nessun dialogo politico sapranno avvicinare l’uomo moderno nelle difficoltà internazionali, nei diaframmi di razze, di lingue e soprattutto nei complicati rapporti economici tra ricchi e poveri, servi e padroni come il significato del pane eucaristico. E’ la logica della religione realizzata nell’ “ama gli altri come te stesso”. Insomma per non spogliare gli altri, occorre abbassarsi: cioè, spogliare se stessi. Oggi il credente deve condurre le sue convinzioni ideali a conseguenze concrete, soprattutto politiche. Forse in questo senso Paolo scrive ai Galati: “non c’e’ piu’ ne’ giudeo ne’ greco, ne’ schiavo ne’ libero ne’ maschio ne’ femmina, perché tutti siete un solo corpo”.
Sono ospite nel piccolo ospedale missionario di Tosamaganga: lavora un giovane medico di Savona con 5 infermiere francescane. Un tantino di malaria e di stanchezza mi obbligano allo stop nel mio andare dallo Zambia alla Tanzania. Non so se arriverò in Kenya ed in Uganda, dove mi attendono amici medici. La dolcezza e la testimonianza di questo personale ospedaliero assai mi allietano. Ricompenso la loro disponibilità con le mie conversazioni e ne nasce un vero dialogo, autentici sentimenti di amicizia. I problemi del 3 mondo visti sul posto ci 1egano intimamente e ci interroghiamo se il nostro operato e’ valido o no, mentre la fede stessa viene duramente provata tra presunte motivazioni e situazioni di fondo.
Che dire dell’Africa?
L’Africa e’ un mistero pieno di grazia e di dramma. La povertà della gente, la miseria dei lebbrosi, i contrasti sociali con 1e sue città europee ( piene di traffico, di affari, di bidonville e di prostituzione, gente che va e gente che viene da ogni continente...). La settimane scorsa attraversavo il centro di Nairobi ( la piccola Londra) e pensavo a tutte questo cose ricordando la conversazione con una suora milanese. Raccontava che al suo arrivo, all’inizio del secolo, Nairobi contava solo un piccolo ufficio postale, qualche casetta inglese e poi tutto era bosco e i sentieri si snodavano sotto le piante. Mentre camminavo osservavo a vista d’occhio l’universita’, la cattedrale, l’hotel Hilton, i grandi viali, quasi come l’Eur di Roma. Davvero dalla savana, alla I elementare, alle scuole superiori, all’università e al traffico aereo, di cammino ne ha visto questa gente. E dire che per anni i primi missionari per convincere i genitori a lasciare liberi i bimbi per la scuola dovevano pagarli, mentre gli inglesi protestavano per la dedizione scolastica dei religiosi.
Come pure la retribuzione della mano d’opera prestata dagli africani sotto la direzione dei coloni non e’ che fosse giustamente retribuita al dire della suora. Padre, veramente i capi dissanguavano questi africani. Con pochi scellini liquidavano i lavori fatti durante una settimana.
E magari l’operaio aveva una nidiata di bambini nella capanna... Sono cose tristi ma vere. E non e’ detto che pure qualche missionario con tutte le sue buoni intenzioni per la costruzione di scuole o di maternity Centres, non abbia lasciato a desiderare per quanto riguarda la giustizia nei confronti della paga agli operai. Non sono mancati gli errori. Che vuole, l’Italia nel 1911 e nel 36 e’ venuta in Africa con i cannoni. Colonialista accanto agli altri stati coloniali. Tutto veniva valutato dal nostro punto di vista; ci si lamentava del poco rendimento, della poca capacità e della poca costanza dell’africano nel lavoro. Vede, pure le strade più grandi della città sono frutto del lavoro dei nostri soldati italiani: erano i nostri ragazzi prigionieri durante gli anni di guerra.
Mi accorgo di lasciarmi prendere la mano da ciò che non vorrei dire, quasi per riconoscere l’operato di questa giovane chiesa africana giudicata trionfalistica e occidentaledai contestatori. Forse e’ l’innato sentimento di rivendicazione e di gratitudine per quelle centinaia e centinaia di suore maestre e operaie che con immensi sacrifici di salute, di gioventù hanno prodigato tutte le loro energie all’opera della educazione. Oggi nelle città africane é comodo visitare le ambasciate cinesi o russe, parlare di sistemi socialisti nelle università di Dar es Salaam o di Lusaka, conversare con le eleganti impiegate o professoresse africane, ma dietro tutta questa emancipazione esiste la storia di tutta una vita interiore offerta a Dio e al prossimo che ha preso le mosse dal primo educatore. Sono ex maestre che 60, 50 anni fa, appena diplomate in Romagna o nelle ragioni del Piemonte o Veneto (queste le mie conoscenze) hanno seguito l’ideale missionario. Proprio per sottolineare la trama di questo lungo lavoro sociale basta ricordare la festa di ieri svoltasi qui a Tosamaganga in occasione del 25 di sacerdozio di un parroco africano.
La chiesa era gremita di popolo. L’organizzatore era il P. Giorda di Torino. Neppure David con la sua sapienza ha tributato a Dio tanta elevazione di preghiera con canti, inni, accompagnati da tamburi, organo, arpe, chitarre, batti di mano, ritmi sacri, durante la funzione. L’orazione comunitaria era condotta ad una concezione estetica di bellissima poesia e di finissima conduzione liturgica. Nel grande sagrato sono seguiti discorsi augurali, giochi di ragazzi, saggi ginnici di diverse tribu’ in uno sfavillio di colori e di abiti. Tutto ebbe termine nel primo pomeriggio. A pranzo trovai ravioli e simili consolazioni della nostra cucina italiana. Più tardi passai in cucina a ringraziare le suore. La cuoca (Emiliana) da 45 anni vive dietro le pentole.
”Che vuole, Padre, io sono convinta che i medici e le medicine siano indispensabili, ma è soprattutto necessaria una buona cucina. Ai miei primi anni di Africa la sottonutrizione e la malnutrizione distruggevano bambini, vecchi e molta povera gente. Io vengo da una famiglia contadina. Mia madre mi ha insegnato a fare di tutto in casa... A 20 anni, arrivata in Tanzania, nella missione dei Padri c’era una scuola con 600 ragazzi ed io ho sempre pensato alla cucina e al pollaio. Le ragazze che hanno lavorato con me ormai sono sposate con figli grandi e forti come i nostri ragazzi italiani.
Questa presente che doveva essere una semplice paginetta da girare ad un paio di amici vedo che si dilunga in un intero capitolo, quasi una lunga storia. Sia pure, ma
torniamo all’iniziale stato di animo e alla attuale descrizione dell’Africa di adesso, o meglio, dei 4 paesi visti dal sottoscritto o della particolare Africa di questa sera. Forse domani cambierò il mio parere. E’ un’ora di sincerita’ sociologica registrata da un incompetente. E’ meglio che mi confessi presto, subito. Mi voglio liberare dall’ingombro che mi batte addosso. E’ una confessione ad alta voce ma che passa attraverso queste mani e il nastro riproduce il rosso blu’ di questa realtà. Queste pagine hanno il difetto dell’improvvisazione per aver toccato molti argomenti accennati a primo gettito. Il contenuto però’ lo ritengo una meditazione continua di queste settimane, frutto di diverse analisi, conversazioni e di molte domande con gente che vive la situazione africana. In Europa spesso siamo facili ai momentanei entusiasmi o a futili emozioni romantiche sul terzo mondo. A questo punto se dovessi appellarmi alla descrizione delle prime righe dovrei soffermarmi su questo tramonto di fuoco o su alcune figure apocalittiche di certi animali, come sulla mitezza e sulla eleganza di altri. Ma mi preme di più sottolineare la bellezza dei bambini, magari il comportamento implorante di certe mamme di fronte ai bambini ammalati, denutriti o bisognosi di tutto. Impressionano assai pure gli sguardi dei vecchi con tutti i diaframmi del sotto io che reclamano aiuto ed esistenza nella sera della vita, dispersi sotto le capanne tempestate dalle intemperie e molestati dagli insetti di tutte le specie.
Qui e’ tutto un susseguirsi di fatti e di necessarie improvvisazioni che ti sbattono in diverse direzioni del pensare. Il termometro della mia fede va dalla animazione della preghiera come agli sdegni e alle imprecazioni contro piccoli uomini egoisti, metodi ed istituzioni ingiuste. Credo che le Chiese dei paesi capitalisti, le università, gli economisti siano, o meglio siamo, tutti colpevoli della situazione di questo terzo mondo fatto di ammalati, di analfabeti, di sfruttati e sfruttatori e di sottosviluppo di ogni genere.
Scusami. E’ per me una sera grave. ”Vedi, Contiero, se tu fossi un ammalato grave o dovessi applicarti una seria terapia non potrei farti nulla: mi mancano mezzi, strumenti ospedalieri adatti e medicine efficienti per le molto malattie tropicali... “. Questa e’ la situazione del mio ospedale e dei miei ammalati. Così mi parlò il medico del piccolo ospedale. Il discorso del medico e’ stato improvvisamente interrotto perché in quel momento arrivò con una jeep , tutto trafelato, Padre Giorda con una mamma assai ferita, morente e morsicata da un serpente. La povera donna era sorretta in braccio di sua figlia, ancora bambina. Il missionario per caso aveva trovato l’ammalata, a 40 miglia dall’ospedale, al confine della sua parrocchia. Ammutolito, osservai quel rapido pronto soccorso e pensai ai tre nuovissimi ospedali chiusi per mancanza di medici e di infermieri che vidi sul lungo nastro di strada che si snoda da Kampala a Kigumba, Gulu, Anaka, Nebbi, in direzione del Lago Alberto. Intanto noi a Bologna, Milano o a Valle Giulia di Roma (oppure ai nostri corsi su Marxismo e cristianesimo” a Cogne ....) continueremo a problematicizzare e a contestare sulle questioni di metodo o sulla chiesa dei poveri.
Vedo che e’ notte e i pensieri potrebbero farsi più cupi. Domani verrà l’alba e praticheremo una pagina del Vangelo di Giovanni sul Cieco nato: Finché è giorno Io opero....”.
Ti saluto con questo desiderio di speranza e ti assicuro che al ritorno in Italia all’universita’ continuerò a gridare.

Don Contiero

P.S. Lettera per i medici e i laureandi in ingegneria, fisica, chimica, agraria e veterinaria.

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LA NONVIOLENZA OGGI IN ITALIA.
PAOLO ARENA E MARCO GRAZIOTTI INTERVISTANO
PAOLO NEROZZI

[Ringraziamo Paolo Arena (per contatti: paoloarena@fastwebnet.it) e Marco Graziotti (per contatti: graziottimarco@gmail.com) per averci messo a disposizione questa intervista a Paolo Nerozzi.
Per un breve profilo di Paolo Nerozzi si veda la risposta all'ultima domanda di questa intervista]

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Come e' avvenuto il suo accostamento alla nonviolenza?

- Paolo Nerozzi: Con la guerra in ex Jugoslavia.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali personalita' della nonviolenza hanno contato di piu' per lei, e perche'?

- Paolo Nerozzi: Gandhi, don Milani, Gene Sharp, Jean Goss, Pat Patfoort, Alberto L'Abate, Nanni Salio, perche' hanno formato il mio sentire in qualcosa che non e' solo un sogno ma concretezza.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali libri consiglierebbe di leggere a un giovane che si accostasse oggi alla nonviolenza? E quali libri sarebbe opportuno che a tal fine fossero presenti in ogni biblioteca pubblica e scolastica?

- Paolo Nerozzi: Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta; Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza; Martin Luther King; La nonviolenza evangelica; Pat Patfoort, costruire la nonviolenza; Lennart Parknas, Attivi per la pace; il vangelo.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali iniziative nonviolente in corso oggi nel mondo e in Italia le sembrano particolarmente significative e degne di essere sostenute con piu' impegno?

- Paolo Nerozzi: Greenpeace; gli obiettori di coscienza israeliani; le azioni nonviolente in Congo e in Sudan.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: In quali campi ritiene piu' necessario ed urgente un impegno nonviolento?

- Paolo Nerozzi: La formazione, la cultura.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali centri, organizzazioni, campagne segnalarebbe a un giovane che volesse entrare in contatto con la nonviolenza organizzata oggi in Italia?

- Paolo Nerozzi: Peace Brigades International.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Come definirebbe la nonviolenza, e quali sono le sue caratteristiche fondamentali?

- Paolo Nerozzi: Porgere l'altra guancia non e' passivita'.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e femminismo?

- Paolo Nerozzi: La cultura dell'accogliere.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza ed ecologia?

- Paolo Nerozzi: Il metodo dello sviluppo della vita e i suoi mutamenti.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza, impegno antirazzista e lotta per il riconoscimento dei diritti umani di tutti gli esseri umani?

- Paolo Nerozzi: Il confronto come occasione di crescita.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotta antimafia?

- Paolo Nerozzi: La politica nonviolenta che si fa testimonianza, denuncia e costruzione.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotte del movimento dei lavoratori e delle classi sociali sfruttate ed oppresse?

- Paolo Nerozzi: Le tecniche; pero' ci si e' troppo fermati allo sciopero.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotte di liberazione dei popoli oppressi?

- Paolo Nerozzi: Il respiro di poter vivere, la sopravvivenza che si fa lotta.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e pacifismo?

- Paolo Nerozzi: Pensiero positivo della pace, ma non e' sufficiente.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e antimilitarismo?

- Paolo Nerozzi: Fondamento della Difesa popolare nonviolenta.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e disarmo?

- Paolo Nerozzi: La Difesa popolare nonviolenta.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e diritto alla salute e all'assistenza?

- Paolo Nerozzi: Consapevolezza del proprio se'.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e informazione?

- Paolo Nerozzi: La verita'.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione filosofica?

- Paolo Nerozzi: Che l'uomo ha bisogno di essere amato.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione delle e sulle religioni?

- Paolo Nerozzi: Come sopra.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione sull'educazione?

- Paolo Nerozzi: Il training.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione sull'economia?

- Paolo Nerozzi: L'economia di villaggio.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione sul diritto e le leggi?

- Paolo Nerozzi: L'obbedienza non e' piu' una virtu'.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione sull'etica e sulla bioetica?

- Paolo Nerozzi: Il rispetto per ogni respiro di vita e accogliere i propri limiti.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione sulla scienza e la tecnologia?

- Paolo Nerozzi: La capacita' di accogliere il limite per essere illimitati.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione storica e alla pratica storiografica?

- Paolo Nerozzi: La cooperazione e le lotte nonviolente.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Tra le tecniche deliberative nonviolente ha una grande importanza il metodo del consenso: come lo caratterizzerebbe?

- Paolo Nerozzi: Un cervello collettivo che naviga nel mare anche con chi viaggia in treno e in aria, sentendosi dentro a un viaggio che lo sta trasformando.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Tra le tecniche operative della nonviolenza nella gestione e risoluzione dei conflitti quali ritiene piu' importanti, e perche'?

- Paolo Nerozzi: Per il conflitto micro pensare che l'altro ha ragione. Per il conflitto macro: togliere il consenso.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Come caratterizzerebbe la formazione alla nonviolenza?

- Paolo Nerozzi: Tramite training.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Come caratterizzerebbe l'addestramento all'azione nonviolenta?

- Paolo Nerozzi: Come sopra.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali mezzi d'informazione e quali esperienze editoriali le sembra che piu' adeguatamente contribuiscano a far conoscere o a promuovere la nonviolenza?

- Paolo Nerozzi: Il web, campi estivi, eventi ecc.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali esperienze in ambito scolastico ed universitario le sembra che piu' adeguatamente contribuiscano a far conoscere o a promuovere la nonviolenza?

- Paolo Nerozzi: Una volta era l'obiezione di coscienza, sarebbe utilissimo ripristinarla (ma in questo momento storico e' impossibile), bisognerebbe rendere il servizio civile obbligatorio. Oggi: servizio civile, le lotte degli studenti, progetti di proposta di azione diretta nonviolenta in zone di conflitto, corsi sul conflitto micro per la gestione dei propri conflitti interpersonali.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: I movimenti nonviolenti presenti in Italia danno sovente un'impressione di marginalita', ininfluenza, inadeguatezza; e' cosi'?

- Paolo Nerozzi: Se si parla di visibilita' direttamente correlata con la scelta consapevole di una coscienza e azione nonviolenta, la nonviolenza e' in effetti marginale. Ma sotto l'apparenza di un mare piatto in realta' nelle profondita' c'e' movimento, e molto.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: E perche' accade?

- Paolo Nerozzi: C'e' un impegno piu' che altro intellettuale che di comunita'. La nonviolenza in se' non viene ancora sentita come base per costruire qualcosa in cui spendere la vita. Diventa piu' concreta la cooperazione, la carita', ecc. Ma questi sono in realta' segnali di azioni nonviolente, anche se magari chi li attua non ne fosse consapevole.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: E come potrebbero migliorare la qualita', la percezione e l'efficacia della loro azione?

- Paolo Nerozzi: Creare punti di comunita'. Guardare il modello di Greepeace.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: I movimenti nonviolenti dovrebbero dotarsi di migliori forme di coordinamento? E se si', come?

- Paolo Nerozzi: Per azioni dirette nonviolente si', ma non creiamoci un capro espiatorio con la questione di un miglior coordinamento.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: I movimenti nonviolenti dovrebbero dotarsi di ulteriori strumenti di comunicazione? E con quali caratteristiche?

- Paolo Nerozzi: La strada e' il web, e oltre a comunita' virtuali anche comunita' concrete. Il metodo e' quello indicato da Lennart Parknas in Attivi per la pace.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e movimenti sociali: quali rapporti?

- Paolo Nerozzi: Fini e mezzi.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e istituzioni: quali rapporti?

- Paolo Nerozzi: Controllo e stimolo.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e cultura: quali rapporti?

- Paolo Nerozzi: Teoria del potere e conflitto.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e forze politiche: quali rapporti?

- Paolo Nerozzi: Partecipazione e servizio.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e organizzazioni sindacali: quali rapporti?

- Paolo Nerozzi: Aiuto ad andare oltre lo sciopero, verso altre azioni dirette nonviolente; nella loro ufficialita' le organizzazioni sindacali sono troppo statiche per pensarle, impegnarsi e attuarle; si creano da parte dei gruppi di base che hanno situazioni di pericolo per il proprio posto di lavoro. Poi c'e' la questione delle scelte e della partecipazione: a parole vige un sistema democratico, ma nei fatti vige un sistema di ordine militare.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e pratiche artistiche: quali rapporti?

- Paolo Nerozzi: Espressione della propria consapevolezza di aver bisogno di essere amato.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e amicizia: quale relazione? E come concretamente nella sua esperienza essa si e' data?

- Paolo Nerozzi: Passi verso un confronto interpersonale con mezzi cooperativi.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e percezione dell'unita' dell'umanita': quale relazione e quali implicazioni?

- Paolo Nerozzi: Empatia con la natura, gli esseri viventi e l'arte.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e politica: quale relazione?

- Paolo Nerozzi: E' come l'acqua con il pesce.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e vita quotidiana: quale relazione?

- Paolo Nerozzi: Confronto interpersonale.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e cura del territorio in cui si vive: quale relazione?

- Paolo Nerozzi: Mediazione sociale.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e cura delle persone con cui si vive: quale relazione?

- Paolo Nerozzi: Confronto interpersonale.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: La nonviolenza dinanzi alla morte: quali riflessioni?

- Paolo Nerozzi: Accogliere il limite per divenire illimitati.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali le maggiori esperienze storiche della nonviolenza?

- Paolo Nerozzi: La scelta della debolezza per divenire piu' forti nel senso dell'evoluzione dell'uomo, e la trasversalita' della scelta di cooperazione come fondamentale sempre per l'evoluzione dell'uomo.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quale e' lo stato della nonviolenza oggi nel mondo?

- Paolo Nerozzi: Maggiore consapevolezza della forza nonviolenta nei casi in cui ci si trova deboli se non si e' gia' impotenti. Maggiore utilizzo della nonviolenza (come metodo) in modo inconsapevole, senza avere un chiaro riferimento dei fini. Maggiore speranza di sognare un mondo nonviolento (fini) senza avere chiaro che e' il gruppo a realizzarlo e non la ricerca e speranza di un leader che "risolva" tutto.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quale e' lo stato della nonviolenza oggi in Italia? E quale le sembra che sia la percezione diffusa della nonviolenza oggi in Italia?

- Paolo Nerozzi: Come sopra.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: E' adeguato il rapporto tra movimenti nonviolenti italiani e movimenti di altri paesi? E come migliorarlo?

- Paolo Nerozzi: Una piccola e marginale idea che potrebbe essere la nostra piccola "marcia del sale", potrebbe essere quella di organizzare insieme l'evento dell'anniversario del centenario della pace del natale 1914 da parte degli eserciti al fronte.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali iniziative intraprendere perche' vi sia da parte dell'opinione pubblica una percezione corretta e una conoscenza adeguata della nonviolenza?

- Paolo Nerozzi: Ne ho gia' parlato prima.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e intercultura: quale relazione?

- Paolo Nerozzi: Ha bisogno di vivere il presente per continuare ad essere evento storico che accompagna i giri della terra per nutrire di speranza il futuro.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e conoscenza di se': quale relazione?

- Paolo Nerozzi: Fondamentale il lavoro di consapevolezza personale, per il proprio cammino verso la nonviolenza. Quando ci si crede nonviolenti e non al contrario in cammino verso la nonviolenza significa che il percorso sulla conoscenza di se' si e' fermato. Se non c'e' un cammino costante di conoscenza di se' che accompagna la propria vita non puo' esistere un cammino verso la nonviolenza. Il cammino verso la nonviolenza vive del cammino di conoscenza del se' come il cammino di conoscenza del se' vive del cammino verso la nonviolenza.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e scienze umane: quale relazione?

- Paolo Nerozzi: Basi morali e strategie.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e stili di vita: quale relazione?

- Paolo Nerozzi: Politica nonviolenta individuale e collettiva.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e critica dell'industrialismo: quali implicazioni e conseguenze?

- Paolo Nerozzi: Maggiore progresso verso uno sviluppo sostenibile nella direzione di una decrescita felice.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e rispetto per i viventi, la biosfera, la "madre terra": quali implicazioni e conseguenze?

- Paolo Nerozzi: Per tutti: un futuro per il pianete terra. Per me: empatia all'interno dei respiri della terra, un lavoro che aiuta tra l'altro la conoscenza di se'.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza, compresenza, convivenza, scelte di vita comunitarie, riconoscimento dell'altro, principio responsabilita', scelte di giustizia, misericordia: quali implicazioni e conseguenze?

- Paolo Nerozzi: Ne abbiamo gia' parlato prima.

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Potrebbe presentare la sua stessa persona (dati biografici, esperienze significative, opere e scritti...) a un lettore che non la conoscesse affatto?

- Paolo Nerozzi: Mi sono avvicinato alla nonviolenza con la guerra in ex Jugoslavia, partecipando a Mir Sada (agosto 1993); ho conosciuto i Beati costruttori di pace e Pax Christi; con la preparazione a Mir Sada ho conosciuto il metodo training; in seguito ho fatto parte della Rete di formazione alla nonviolenza e ho partecipato a vari training per formatori. Dopo Mir Sada ho fatto parte della Campagna per una soluzione nonviolenta in Kossovo: sono stato in Kossovo per l'apertura dell'ambasciata di pace con Alberto L'Abate; come osservatore alle elezioni parallele dei kossovari; per l'azione diretta nonviolenta fatta il 10 dicembre 1998 a Pristina. Allo stesso tempo con altri amici abbiamo fatto rinascere il gruppo locale di Pax Christi a Bologna, e come Pax Christi bolognese abbiamo promosso attivita' varie in citta'. Sono stato tra i promotori della Rete Llliput a Bologna; ho partecipato all'organizzazione del campo su "Vangelo e nonviolenza" a Monte Sole (per quattro anni) e di viaggi per conoscere la Sicilia e lotta alla mafia, poi la Rosa bianca, Franz Jagerstatter, il natale 1914. Ho effettuato vari training su conflitti micro e macro e sono formatore per il servizio civile. Attualmente come gruppo di Pax Christi stiamo costruendo il sentiero della Costituzione italiana che collega Monte Sole a Barbiana con la posa dei cartelli della Costituzione italiana. Niente scritti e opere varie: sono un semplice militante.


(articolo tratto dalla mailing-list Telegrammi della Nonviolenza in Cammino n. 363 del  03/11/2010) 

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Roma 27/11/2010: Intervento di don Fabio Corazzina alla manifestazione della CGIL

 

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